Diceva Ida Magli, la grande antropologa oggi quasi dimenticata, che per «politicamente corretto» bisogna intendere «corretto per fini politici» ma anche «corretto dalla politica». Da Hong Kong arriva un esempio da manuale che conferma quanto la studiosa avesse visto giusto (purtroppo). La Cina ha preso alla lettera, un po' troppo, la «decolonizzazione», quel processo culturale che tende a condannare, più che a studiare, la storia appunto delle colonie. Naturalmente solo le colonie dei Paesi europei, le altre interessano poco e niente. Anche la «decolonizzazione», partita con le migliori intenzioni, cioè riscoprire le radici dei popoli conquistati, si è trasformata in uno strumento per scalpellare la deprecabile civiltà occidentale, sperando che imploda dalla vergogna.
Cosa è successo, dunque? Gli studenti di Hong Kong hanno aperto i manuali di storia e hanno fatto una scoperta sensazionale: Hong Kong non è mai stata una colonia inglese. Leggiamo la notizia sull'edizione domenicale del Times, accompagnata da un articolo di uno storico, lo sgomento Ben Macintyre, ben noto anche ai lettori italiani.
Il 29 agosto 1842, al termine della Prima guerra dell'oppio, vinta dall'esercito britannico, infinitamente superiore al nemico dal punto di vista tecnologico, la Cina pagava un caro prezzo in termini economici e territoriali.
Con il Trattato di Nanchino, ratificato dall'imperatore cinese e dalla regina Vittoria, l'isola di Hong Kong, quasi disabitata, diventava una colonia della corona britannica. Tale rimase, con l'aggiunta di altri territori, fino al 1997 quando fu «restituita» alla Repubblica popolare cinese con lo status di regione amministrativa speciale. Nel frattempo era diventata uno scalo commerciale e un centro finanziario tra i più importanti al mondo. Oggi è una metropoli moderna, con sette milioni di cittadini, molti dei quali rimpiangono la colonizzazione inglese, dopo aver assaggiato le prime razioni di comunismo cinese.
Tutto questo, secondo i nuovi libri di storia, non sarebbe vero. L'imperatore non avrebbe mai riconosciuto il Trattato di Nanchino, e l'invasione inglese non avrebbe mai messo in discussione la sovranità cinese su Hong Kong. Non è una questione di lana caprina. Negare il legame di Hong Kong con Londra comporta una serie di conseguenze, come nota Macintyre. Innanzi tutto, ne esce «minato il movimento pro-democrazia di Hong Kong», non a caso descritto come «una minaccia alla sicurezza nazionale e orchestrato da potenze straniere». Poi si impone agli studenti «una forte identità cinese e l'idea che il destino di Hong Kong sia indissolubile da Pechino». Conclusione: «Questa non è storia, è propaganda, e anche poco accurata». Lo storico non nega che le condizioni del Trattato di Nanchino fossero particolarmente dure tanto da fornire la premessa della ascesa del nazionalismo e del comunismo cinese. Il passaggio di sovranità però resta indiscutibile. Così come appare indiscutibile che tra le conseguenze «nobili» della colonizzazione inglese ci sia stato lo sviluppo di una coscienza democratica.
Nel 1972 la Cina chiese alle Nazioni unite di rimuovere Hong Kong dalla lista delle colonie ma, nel 1997, il presidente cinese Jiang Zemin disse che Inghilterra e Cina si erano accordate per «il recupero della sovranità» cinese. Poi fu stabilita, almeno per 50 anni, una certa autonomia di Hong Kong, tranne nelle questioni militari e di politica estera. Come si può recuperare ciò che non si è mai perso?
La cultura della cancellazione (sbianchettare il passato coloniale, con la scusa del politicamente corretto) si rivela così uno strumento nelle mani del potere per riscrivere a piacimento la storia e nel caso specifico scoraggiare l'amore per la libertà.
Da arma di liberazione ad arma di repressione: il salto non deve stupire, la cancel culture è aggressiva (e ignorante) per definizione, anche se si presenta ammantata di belle parole. D'altronde, il sapere è ricerca, quindi scoperta. La cultura della cancellazione nasconde invece di portare alla luce.
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