Ci sono le date: 24 ottobre 1917 - 9 novembre 1917. E ci sono i numeri, numeri un po' approssimativi ma che danno la certezza di una disfatta: 11 mila morti, quasi 30 mila feriti, 300 mila prigionieri e circa 350 mila uomini in fuga, un arretramento del fronte di circa 150 chilometri, una perdita di circa 20 mila chilometri quadrati di territorio nazionale.
Questi sono i dati della battaglia di Caporetto, il momento più critico, per l'Italia, di tutta la Prima guerra mondiale, ma con l'arresto del nemico sul Piave anche il momento a partire dal quale il Paese ha dato prova di avere una imprevedibile capacità di reazione. Ma dai dati è davvero difficile estrarre lumi sulla battaglia. Né da soli sono in grado di dar conto del trauma che lo sfondamento fu per un Paese che sino a quel punto, pur se a prezzo di moltissime vittime, aveva continuato ad avanzare contro il nemico a furia di «Spallate». La nebbia di guerra che avvolge la battaglia, per citare l'espressione del famoso storico John Keegan, non è stata completamente dissolta nemmeno a cent'anni di distanza. Men che meno ci riuscì all'epoca la commissione di inchiesta voluta dopo la battaglia e i cui atti sono al centro di tre dei lavori più recenti sul tema Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta di Luca Falsini (Donzelli, pagg. 226, euro 28), Caporetto. Storia e memoria di una disfatta (Il Mulino, pagg. 240, euro 19 ) di Nicola Labanca e A Caporetto abbiamo vinto (Mondadori Electa, pagg. 208, euro 25,90) a cura di Stefano Lucchini (corredato anche da magnifiche fotografie).
Allora val la pena dar voce direttamente ad alcuni dei protagonisti, generali, soldati, intellettuali al fronte e non, e far raccontare la battaglia dalle loro voci. La zona attorno a Caporetto prima dell'attacco degli austro-tedeschi era molto tranquilla. Nessuno si aspettava un attacco lì. Non si può dire che il generale Cadorna non avesse capito che gli austriaci erano ormai, anche per sfinimento, pronti a giocarsi il tutto per tutto. Così scriveva il 18 settembre: «Il continuo accrescersi delle forze avversarie sulla fronte Giulia fa ritenere probabile che il nemico si proponga di sferrare quivi prossimamente un serio attacco...». Ma Cadorna pensava potesse avvenire nella primavera del 1918 e più a Sud. Quanto sapeva della zona dove si sarebbe svolto l'attacco? Probabilmente poco. Sulla carta esistevano svariate linee di difesa in sequenza. Ma quelle dopo la prima erano inadeguate e mal organizzate. Colpa della dottrina Cadorna tutta proiettata all'attacco. Ma anche della mancanza di contatti tra il generalissimo, il comando centrale e i comandi inferiori. Quale fosse la situazione lo spiegò così il generale Giacinto Sachero alla commissione d'inchiesta: «Nulla era stato provveduto alla destra del Tagliamento, che mancava di qualsiasi organizzazione di una difesa anche breve». Responsabilità del comandante della seconda armata, il generale Capello, o di Cadorna? Se ne continua a discutere ancora oggi però è chiaro quale fu l'impatto, per chi si trovava sulla linea del fronte, del preciso e metodico attacco austro tedesco. Ecco il diario di un soldato d'eccezione, Carlo Emilio Gadda: «Fummo svegliati da un sordo e intenso bombardamento nella conca di Plezzo... Il ritmo era quello di un tiro violentissimo, tambureggiante... erano le due». Quello che si rovescia sulle prime linee, spesso preceduto dai gas, è un attacco diverso dal solito, rapido, condotto da piccoli nuclei agguerriti che sfondano e passano oltre. C'è chi scappa e chi resiste ma chi resiste si trova rapidamente senza i mezzi per farlo. Così alla commissione di inchiesta un ufficiale che operava nella zona di Plezzo: «I soldati avevano poche cartucce... Non si ebbero rifornimenti di nessun genere... forse se fossero arrivate le cartucce si sarebbe potuto resistere... Ho visto soldati tirare pietre contro gli austriaci...».
Cosa percepivano in quel momento i comandi del disastro che stava per profilarsi? A dircelo in questo caso è il diario del generale, e discreto romanziere, Angelo Gatti: «24 ottobre nella giornata nulla di nuovo». Persino a tarda sera ancora nessuno ha capito. Così Gatti alle 19,30: «Leggo il bollettino. Non mi piace affatto. C'è una frase infelicissima in cui si parla del nemico: Vengano pure, dice, noi li aspettiamo saldi e ben preparati. Per fortuna, penso tra me, il tempo è orribile. Qui piove, là in alto fra i monti farà almeno la nebbia. Vado al cinematografo». La nebbia giocò a favore degli attaccanti, che al cinema non ci andarono. Vicino al fronte va invece segnalato lo stupore di Ardengo Soffici: «Ma i nostri, i nostri, cosa fanno? Dopo il bombardamento nemico non si ode quasi più un colpo di cannone».
Iniziò la rotta in mezzo alla quale, indubbiamente, molti soldati iniziarono anche a rifiutare di combattere. Quello che secondo alcuni diventò uno sciopero militare. A quello si appigliarono i generali che di prendersi la responsabilità della rotta, voglia ne avevano poca. Così il generale Lorenzo Barco: «Non fu il comando della 20esima divisione a rimanere separato dalle truppe, bensì furono queste che in gran parte si separarono, purtroppo, dal comando». E anche un anti-cadornista come il generale Di Giorgio parlò di chi si ritirava come di una «orrenda folla ributtante». Una folla che in pochi difesero. Tra questi lo scrittore Curzio Malaparte nel suo Viva Caporetto! che tante ire suscitò nei fascisti. Malaparte, che a Caporetto non c'era, non negò che parte dei fanti si fossero ribellati ai comandi. Sostenne invece che ne avessero tutte le ragioni: «Allora il fante, solo, disperato, invelenito d'odio, si buttò contro la legge. Cioè contro la nazione che non lo capiva, contro gli imboscati, contro gli inabili alle fatiche di guerra, gli esonerati, i patrioti retorici, gli speculatori del sacrificio altrui, contro il Governo disfattista, contro i nemici della fanteria, contro i nemici dell'Italia».
Probabilmente la gran massa dei fanti non scioperò affatto. Ma ciò non impedì a Cadorna di scrivere quel comunicato del 28 ottobre che, diramato anzitempo, è forse il suo errore più ingiustificabile. «La mancata resistenza di reparti della Seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austrogermaniche di rompere la nostra ala sinistra». Da lì promanò il terribile sentimento di sconfitta ripreso anche dai giornali esteri, ma soprattutto di sospetto, che raggiunse i giornali e si insinuò nell'anima anche di molti intellettuali italiani, al fronte o meno (il tema è ben affrontato in un articolo dell'ultimo numero di Vita e Pensiero di Giuseppe Langella: La disfatta di Caporetto nel processo degli scrittori). Da Marinetti che si accasciò sgomento - «Il destino ci colpisce. Mi sento morire» - a chi come Attilio Frescura se la prese addirittura con le popolazioni friulane accusandole di cooperare con gli austriaci. Il fronte alla fine si stabilizzò sul Piave. E mancando il colpo del K.O. l'Austria si condannò alla sconfitta, Vittorio Veneto è già nel finale di Caporetto.
Eppure nel cuore degli italiani si era insinuato un dubbio, una ferita, sanata dalla vittoria, ma non del tutto e soprattutto mai resa esplicita. Una ferita che si sarebbe riaperta, molto più grave, solo l'8 settembre di una guerra a venire.
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