Ezio Savino ha curato l'edizione di Dersu Uzala per Mursia, nel 1979. Il libro, da tempo, è scomparso dalle librerie. Peccato: il reportage dall'Ussuri, l'estremo oriente russo, scritto da Vladimir Arsen'ev, militare e avventuriero eccentrico (alle imprese della Rivoluzione preferì le solitudini della taiga), da cui Akira Kurosawa, nel '75, trae il suo film più bello, magnetizza alla foresta, fa venire voglia di costruirsi una casa sugli alberi, in favore di fiera. Savino non aveva nulla del «piccolo uomo delle grandi pianure»: era elegante, volitivo, spiritoso fino allo humour nero, la prestanza di un Ussaro. Eppure, si è mosso nella taiga della cultura con l'avventatezza di uno sciamano, con l'avvertita sapienza di un trapper, di un apripista. Savino non stava nello shuttle di cristallo degli accademici, che non si fanno toccare dai testi, ignifughi alla mania; egli, come dire, danzava nel fango, in direzione delle stelle. Dersu Uzala è l'uomo che si orienta nel bosco, che risolve gli enigmi della natura, che rispetta la tigre. Per Savino la tigre - parole sue, tradotte da Pindaro - è il «bagliore del momento»; cioè «quel soprassalto poetico da pelle d'oca, il detonante che fa schizzare l'espressione al punto più alto, al fremito supremo dell'emozione, molto, molto vicino alla verità». Eccolo, l'agguato lirico, che aggioga a una gioia insensata, muta, blu. Quel bagliore - il getto d'unghia della tigre -, riconosciuto in Ghiannis Ritsos - a cui dedica il saggio che ho citato, in Quarta dimensione, Crocetti, 2013 -, Savino lo possedeva al massimo grado d'ustione. Aveva la tigre sulle labbra, Savino. Era, voglio dire, un poeta, imbarbarito dall'aggressiva ebbrezza del verbo.
Basta leggere il suo Eschilo, per capirlo (anni di grazia: '78 l'Orestea; '82 il resto), un capolavoro, roba che ti ricapitola e ti massacra. Esempi. «Da ora, per me l'universo è blocco d'angoscia. Ecco, mi si staglia negli occhi: dio è contro di noi! M'assorda il cervello un urlìo malato... mi paralizza l'orrore dei mali» (da I Persiani); «La città si dissangua, impasto di grida. Il bottino vivente s'avvia al suo strazio in un gorgo di urla. Trasalisco: il domani è una cappa di pena» (da I sette contro Tebe). Inutile saggiare altre traduzioni: nel detto di Savino, grecista d'atroce precocità - a 25 anni, per Garzanti, traduce la Guerra del Peloponneso di Tucidide -, senti la furia epigrafica di René Char, le frasi fatali di Cormac McCarthy, le atmosfere apocalittiche di Dune, di Blade Runner. Micidiale divulgatore - Il ragazzo con la cetra è ancora un successo -, Savino sapeva voltare l'introduzione - di norma, un genere che appaga con chili di noia - in pezzo d'arte. Così, per dire, ricostruisce l'Atene di Aristofane (che ha tradotto per Guanda, nel 1977): «Cumulo aspro di tormenti. In Atene, per la folla di campagnoli serrati con i cittadini all'ombra delle mura, mentre le incursioni nemiche spianavano poderi e saccheggiavano messi fino alle porte della città: e allo spettro della fame si mischiava lo spasimo nostalgico delle campagne perdute, dei casolari in cenere, del nemico a godersi il frutto del sudore sulle zolle. Sulla vita quotidiana, a fare più amare le privazioni, l'ombra cupa della guerra: lo spavento di vedersi iscritti, all'improvviso, nelle liste dei richiamati alle armi». Era abbagliato dal bagliore narrativo, Savino. Costantemente sul filo d'ascia dell'ispirazione, non aveva paura di nulla: fra i tanti pezzi lunari e magistrali pubblicati sul Giornale, ricordo quello del 23 luglio 2009, quando Savino s'inventa un incontro tra Alessandro Manzoni e Stephen King; i due, che si riconoscono simili, parlano di «orrore psichico» e di «orrore morale», della necessità di «intingere la penna nell'incubo».
Ecco, soltanto Savino potrebbe definire un distico di Archiloco «il Big Bang della poesia lirica nella Grecia arcaica»; soltanto lui, dopo un rapido ritratto a china («uomo delle isole, scanzonato, sarcastico, visionario poeta, dispensatore di riflessioni e di malinconie»), potrebbe tradurlo così: «Eccomi, io!, servente d'Urlante Signore,/ io, che maneggio regalo amoroso di Muse». Passatevelo sui denti, questo frammento, dalla sonorità sorniona e bronzea: non ne troverete eguale (così, per dire, traduce Enzo Mandruzzato: «Sono al servizio del Signore Enialio/ e so il dono elegante delle Muse»).
I Lirici greci - che aveva reso, in parte, per Guanda, nel 1983 - sono l'autentico testamento di Savino (1949-2014), l'opera a cui «ha lavorato per molti anni, fino all'ultimo dei suoi giorni»: l'edizione di Crocetti (pagg. 782, euro 35; a cura di Daniele Ventre) è un miracolo prima che un omaggio. L'audacia di Senofane («La gente pensa che gli dèi nascano anche loro,/ abiti, ugola, carne, tutto uguale uguale a noi»), il memento mori di Anacreonte («Tempie di cenere, ormai,/ e testa tutta bianca./ L'incanto del mio tempo in fiore/ non è più qui, coi denti che si sfanno:/ spazio di spassosi giorni non ne resta»), la potenza gnomica di Simonide («Neanche quei tali, vissuti nel passato,/ mezzi dèi, esseri nati da potenze celestiali,/ giunsero a vecchiaia maturando vite/ immuni da dolore, distruzione e rischio»): tutto ci parla adesso, con arguzia meridiana, di chi ci sussurra verità di vento mettendoci il coltello alla gola. Più che un libro di versi, da delibare in faccia all'odore del presente, è un libro d'ore, questo, chiede l'incanto della dedica, va aperto a caso, perché ogni frammento, qui, distilla un destino, ci pietrifica in altra era. Saffo («Florido trono antimorte Afrodite/ Diva intrigante: te, sto carezzando,/ non soffocare d'ansie amare, o Forza,/ il mio calore»), inedita in fierezza, pare più bella, intagliata, di quella, artefatta al canto, di Quasimodo.
Si valica tra frantumi, nei Lirici greci, poemi sfigurati, macerie in versi, spettri d'oro: l'arcaico scintilla sulle palpebre come nostalgia impossibile, che zittisce. Savino, dall'aldilà, ci dona la Grecia, ce la pianta in gola.
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