I Pooh: "La nostra musica ha accompagnato pezzi di storia d'Italia"

La storica band, insieme a Riccardo Fogli, ieri (e stasera) a San Siro per festeggiare cinquant'anni di carriera e l'addio alle scene

I Pooh: "La nostra musica ha accompagnato pezzi di storia d'Italia"

Et voilà, prima un'introduzione strumentale e molto epica. Poi tre brani uno dietro l'altro senza neanche una parola della band. A parlare era il pubblico. I Pooh suonavano e cantavano e basta, quasi commossi, Roby Facchinetti al pianoforte bianco, Dodi Battaglia e Red Canzian di fianco, Stefano D'Orazio dietro alla batteria «rotante» (180 gradi), Riccardo Fogli ancora dietro le quinte. San Siro, inizia il primo concerto degli ultimi di una storia da manuale che ora i dati congedano con risultati da standing ovation: 50.408 paganti ieri e stasera qui nella Scala del calcio per un totale di 100.816 (4.389.732 euro di incasso lordo, il montaggio tv delle due serate andrà in onda in prima serata a settembre su Canale 5, il cd e dvd live usciranno il 16 settembre) e 43.178 il 15 giugno all'Olimpico di Roma (43.178 biglietti per 2.374.000 euro incassati). Cifre ideali per dire un parziale addio alle scene perché ci saranno altri show a Messina, Arena di Verona e nei palasport a ottobre e novembre. «Finiremo di suonare il 31 dicembre alle 23.59», scherzavano (ma neanche tanto) i cinque Pooh ieri prima di entrare in scena mentre ricevevano anche il Telegatto speciale di platino e una statuetta del Pmi.

Poi dopo hanno fatto il concerto della vita.

Cinquanta brani in versione molto agile e rock, con una prima parte con brani e suoni che enfatizzano il lato progressive del repertorio (ad esempio Rotolando respirando del 1977) e poi tutto il resto. Pensate al brivido collettivo per quella Piccola Katy che conoscono tutti (compreso chi ci ironizza su). O al fulcro di tutto il concerto, come sempre, quella colossale Parsifal che Roby Facchinetti presenta così: «Nel 1973 abbiamo capito che il rock avrebbe potuto prendere altre strade». Più progressive, sperimentali, talvolta barocche.

In quell'anno Riccardo Fogli era appena uscito dalla band e ora, come ha detto ieri, «sto ancora organizzando le lacrime di commozione per il mio ritorno». In scena, davanti a quattro enormi pannelli scenografici e a due megaschermi, lui è arrivato solo al quarto brano, Banda nel vento, si è divertito per due terzi della scaletta cantando e suonando la chitarra salvo quando ha iniziato a snocciolare il riff di basso di Notte a sorpresa e il pubblico s'è messo a saltare stile rave party. Cinquanta brani in totale. «Ognuno attraversa un periodo particolare dell'Italia», dicevano prima di accendere gli amplificatori.

In realtà ieri sera si sono raccontati senza mezze misure. Suonando come una macchina rodata (anche Stefano D'Orazio, che l'altra sera in prova era un po' «sfilacciato», picchiava duro sui tamburi). Commuovendosi quasi di nascosto, come in Canterò per te, in Domani (quando appare la foto enorme del quinto Pooh, Valerio Negrini, scomparso qualche anno fa) e Ci penserò domani (con la scenografia trasformata in un gigantesco palazzo). E soprattutto srotolando brani che sono una delle colonne sonore dei migliori anni del pop italiano al punto che non c'è bisogno di spiegarli, basta il titolo: Pensiero, Dammi solo un minuto, Uomini soli (con un potentissimo Facchinetti) e Chi fermerà la musica, durante la quale il logo dei Pooh si incendia quasi a «certificare» che siamo proprio alla fine di una storia. Loro, per la prima volta sul palco con questa formazione, facevano buon viso a cattivo gioco prima che si accendessero le luci. Poi hanno trascorso la prima ora delle tre complessive di concerto ad annusare un pubblico commovente, in passato poco rispettato da tanta critica musicale ma formato dalla middle class senza troppi fronzoli, lavoratrice e poco modaiola. «Negli anni '70 i discografici ci dicevano ma perché scrivete testi su argomenti così complicati quando vi ascoltano solo le sciampiste?», ha ricordato un D'Orazio che, sotto sotto, è felice di aver staccato «la batteria dal chiodo». In realtà ieri a San Siro c'era il pubblico più trasversale possibile, certo non giovanissimo ma neppure «pecoreccio» come si scriveva negli schieratissimi anni Settanta. Un signor concerto, con Dodi Battaglia più virtuoso che mai (ha estratto anche una chitarra doppio manico) e un Roby Facchinetti che non vedeva l'ora di esagerare vocalmente, quasi la sua fosse una sfida con se stesso (in Canterò per te lo applaudivano a cena aperta). Alla fine, appena chiuso il nuovo brano inedito «Ancora una canzone», loro cinque hanno iniziato uno strumentale creato apposta per accompagnare l'ovazione del pubblico.

Uno scambio emotivo tra band e pubblico come capita di vedere raramente. E un modo sincero, persino vecchio stile, scelto da cinquantamila persone per dire ciao al gruppo che li ha accompagnati per mezzo secolo senza deluderli mai (piaccia o no, è così).

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