Certo che a Milano non c'è più la nebbia di una volta. Quella bella, spessa, densa, un po' mescolata alla fuliggine dei camini, un po' ai veleni del tubo di scappamento delle auto. Quella che sbucavi da corso Torino e se non stavi attento inciampavi nella statua del re a cavallo. Bella da perdercisi dentro. Quella che quando arrivavi davanti al Duomo non capivi dove finiva la facciata. In alto, sì, ma quanto? Quella che - vedendole dall'alto - la Madunina e la Torre Velasca sembravano fantasmi o, meglio, un ferro da maglia e un mestolo da cucina persi in un bicchiere d'orzata. Bella densa. Grigia.
Eh già, chi se l'è inventata poi 'sta storia delle cinquanta sfumature di grigio? Macché sfumature: quello era un colore solo. Grigio nebbia. Nebbia di Milano. Talmente grigio che ai fotografi bastava la pellicola in bianco e nero, tanto quella a colori era sprecata.
Altri tempi, pensava Michelino nel bel mezzo della sua gita primaverile sul lago di Garda, e intanto ansimava e sudava sotto il sole, sui pedali di quella bicicletta che avrà pure avuto la pedalata assistita, ma sulle salitelle delle colline del basso lago arrancava e costringeva ad arrancare pure lui. Già, Michelino. La maledizione dei vezzeggiativi che quando te li appiccicano da bambino non ti si scollano più. E resti Bobo o Puccio, Lella o Ninni per tutta la vita. A lui era toccato il diminutivo: Michelino. E gli era rimasto addosso forse per via di quell'aria distratta e assente, da fanciullo incantato, che non l'aveva mai lasciato, anche quando era diventato un pezzo d'uomo, un quintale per uno e ottanta, che il compressore in officina lui lo sollevava con un braccio, e la sua prima auto una Cinquecento in fin di vita quella invece con due, di mani.
Già, la nebbia. Anzi la sci-ghe-ra, come la chiamavano i milanesi.
Lui però la nebbia non l'associava solo al grigio di Milano, e al sapor fuliggine che gli lasciava in bocca. Lui l'associava anche a certi altri colori smorti, corrosi, un po' figli della fiamma ossidrica e un po' della salsedine, perché crescendo e studiando Michelino s'era convinto che proprio quello fosse l'effetto della nebbia di Milano sui suoi polmoni: un po' salsedine e un po' fiamma ossidrica. E così s'era convinto che certe ruggini dei casotti negli orti della Barona che vedeva da bambino fossero figlie della nebbia, con i loro confini variabili fra il grigio della lamiera e il rosso della ruggine. E così pure certe ante di vecchie case dove la nebbia si mangiava la vernice verde e chiamava fuori, alla luce, il grigio del legno che c'era sotto. Con il verde che sbiadiva ogni anno e il grigio che ogni anno aumentava.
Adesso invece in città tutto era cambiato. Adesso c'erano certe giornate d'inverno che il cielo a guardarlo sembrava smaltato come il cofano di una Lamborghini. E poi certi gialli. A parte che suo padre glie l'aveva sempre detto che il colore della città era il giallo: il giallo dei tram, il giallo delle strisce sull'asfalto, il giallo degli elmetti degli operai Atm e poi soprattutto il giallo dei semafori. Ora sì ora no. Ora sì ora no. Una pausa breve fra il verde e il rosso che suo padre stava a guardare per delle ore. Michelino no che non stava lì incantato ad aspettare il giallo dei semafori. Sapeva lui dove trovarlo un giallo che in autunno accecava: andava in via Piccinni e si gustava il momento in cui le chiome del filare di gingko biloba diventavano tutte gialle. Se lo sentiva nel sangue lui: aspettava la giornata più tiepida, con il cielo più smaltato, e andava a colpo sicuro. Quegli alberi non lo deludevano quasi mai. Un giallo da lasciare senza fiato. Gioioso e fragrante. Che poi, se le prime foglie erano già cadute e non aveva ancora piovuto, c'era anche la festa per le orecchie, il frusciare di quei piccoli ventagli sotto i piedi, sull'asfalto.
Quando era a caccia di giallo, Michelino a volte passava anche dai giardini di corso Sempione: in ottobre lo aspettava il suo acero. Timido era timido, perché le striature di verde erano ostinate e non si arrendevano. Ma quando il giallo vinceva era un giallo da far male agli occhi, da far girar la testa, un giallo che oscurava l'azzurro Lamborghini dello sfondo.
A tutto questo pensava Michelino, alla nebbia, al giallo dei nuovi inverni a Milano e alla passione del suo povero padre per la natura mentre lui pedalava sulle colline del basso lago. Già, suo padre, che una volta aveva fatto arrabbiare mamma Domitilla e persino il capo magazzino signor Viligelmo con la mania che gli era venuta per una pianta della fabbrica, e pur di farle prendere l'acqua piovana l'aveva portata avanti e indietro, casa e magazzino, magazzino e casa, con la sua bicicletta a motore, fino a quando era diventata enorme, ma poi era spiovuto e la pianta era rimasta tramortita, con una sola misera foglia.
Bicicletta a motore il suo povero padre, bicicletta con pedalata assistita lui, Michelino, che però adesso non faceva lo slalom fra i binari del tram ma arrancava sull'ultima salita, quella prima di Maguzzano, che dopo si vedeva il lago.
Gli avevano detto che con il fermo delle auto e delle fabbriche, il locdaun durato un mese e mezzo, la natura aveva respirato e aveva preso dei colori mai visti, il frumento aveva riflessi azzurri, i fiori dello scotano un rosa cipria da signorina Felicita, i cipressi un verde scuro da quadro di Van Gogh, i papaveri un rosso che non si vedeva da anni. Lui non voleva perdersi uno spettacolo simile. In fondo non ci credeva e invece, superata l'ultima salita, fatta l'ultima curva, gli fu imbandita proprio quella visione, quel bendidio da quadro impressionista, quella natura da giorno dopo il diluvio.
Fermò la bici elettrica come suo padre avrebbe fermato la bici a motore. Accostò piano come avrebbe fatto lui. Restò fermo a lungo, sospirò, infine si asciugò una lacrima. Proprio come avrebbe fatto Marcovaldo, suo papà.
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