"Io l'ho interpretato ma mai sarei capace di andare nello spazio"

L'attore arrivato in Laguna tra un delirio di fan racconta le difficoltà avute sul set

"Io l'ho interpretato ma mai sarei capace di andare nello spazio"

da Venezia

Tutte pazze per Gos, come amano chiamarlo le fan più accese. Che sta per Gosling. Ryan Gosling, l'attore trentasettenne sbarcato al Lido per il film di apertura First Man e diventato immediatamente anche il primo divo che ha fatto raccogliere decine di ammiratrici e, perché no, anche ammiratori, assiepati fin dalle prime ore del mattino al bordo del red carpet. Qui l'attore canadese è apparso prima della proiezione ufficiale che ha aperto la 75ª edizione del festival e che potrebbe portargli anche fortuna per gli Oscar del prossimo anno. Volto spesso impassibile ma dal sorriso furbetto, Gosling in First Man torna a lavorare con Damien Chazelle, il regista di La La Land presentato con grande successo sempre qui a Venezia due anni fa. E proprio dal sodalizio con il più giovane premio Oscar per la regia che inizia il colloquio di Ryan Gosling con i giornalisti: «Damien ha un istinto forte per quello che il pubblico vuole vedere, riuscendo così a unire tantissime persone per andare al cinema».

Dopo un musical, un film di tutt'altro registro.

«La cosa curiosa è che il regista aveva i due film contemporaneamente nella testa prima di girare La La Land. Ne abbiamo parlato insieme dall'inizio e mi ha sempre colpito come entrambi si prestassero per il grande schermo e mi era già venuta voglia di vederli in una sala cinematografica».

Come si è preparato per interpretare il primo uomo sulla luna?

«A parte che, fin da piccolo, per me luna era sinonimo di Armstrong, ho avuto tantissimo aiuto dai suoi figli e ho avuto l'opportunità di conoscere l'ex moglie. Ho poi parlato con persone che lo conoscevano fin dall'infanzia e infine la Nasa ci ha aperto tutte le porte».

Ha avuto difficoltà per le riprese?

«No, ma ho capito molte cose. Per esempio perché Armstrong è diventato un grande astronauta e io no. Durante la preparazione del film ho preso delle lezioni di volo, mi sono fermato all'abc e ho capito quanto sono straordinari gli astronauti».

Che idea si è fatto di Armstrong?

«La nostra intenzione originaria era di raccontarlo come mai era stato fatto. È risaputo che fosse una persona umile, come molti astronauti, e anche un po' reticente. La sfida è stata rispettare questo lato del suo carattere ma poi abbiamo aperto delle finestre per scoprire cosa sentiva e quali erano le sue emozioni».

Ossia?

«Ha spostato l'attenzione da se stesso alle centinaia di persone che hanno lavorato al progetto Apollo. Perché lui diceva di essere la punta di un iceberg, non si vedeva come un tipico eroe americano. Per questo abbiamo pensato di rendere omaggio ad Armstrong, alla sua vita e a come si presentava».

Il film si muove molto tra il mondo privato e quello pubblico.

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«Esatto, non riesco a immaginare una dualità più grande di quella tra l'intimità e la singolarità della vita personale degli astronauti e la natura infinita dello spazio con cui è inevitabilmente intrecciata».

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