Un amico disse, più tardi, che «aveva il volto bianco come la calce e gli occhi offuscati, gelidi». Era venuto da Boston per ammirarlo. L'alcol lo trasfigurava, rendeva il suo volto vitreo. Il 24 ottobre del 1953, curvo sul microfono, crocefisso dal genio, Dylan Thomas legge Under Milk Wood. Durante le prove, ingollava bicchieri di whisky a go-go; l'avevano visto fuggire in camerino con una donna. Morirà qualche giorno dopo, il poeta, l'apocalittico della meraviglia. Under Milk Wood, pubblicato incompiuto, per frammenti, su Botteghe Oscure, nel 1952, è il testo più strambo di Dylan Thomas, quello più amato: la prima edizione, uscita nel 1954, brucia venticinquemila copie; le versioni in radio non si contano; nel 1972 Andrew Sinclair lo traduce in film per la tivù con Richard Burton, Elizabeth Taylor, Peter O'Toole. Secondo gli esperti, le prime ispirazioni di Under Milk Wood folgorano il poeta nel 1931, a 17 anni, quando appunta una stralunata pièce, Lunch at Mussolini's; comunque, è il libro catastrofico di una vita, dove lo sketch si fonde alla profezia, i miti marinari del Galles a Dickens, e l'Apocalisse si volta in pezzo da clown. Il testo condensa in un giorno - e in decine di personaggi - il creato di Dylan Thomas, dio compassionevole e nonsense: tradotto da Carlo Izzo per Mondadori come Sotto il bosco di latte nel 1972, ristampato da Guanda (1992; 2002), torna ora come Milk Wood per Einaudi, in una ispirata versione di Enrico Testa (pagg. 90, euro 12). Dietro la patina ironica, il testo svela il meridiano mistico: il putiferio di chiacchiere si chiude sulla «notte sempre più oscura», mentre il bosco «è sermone verde di foglie sull'innocenza degli uomini». Ecco cosa cercava il poeta, stravolto sul bicchiere, marziano al mondo, nella livida New York: il sortilegio del candore, l'odore bianco del bene, la benedizione di tutti i precipizi, l'infuocata infanzia, lo sterminio dei concetti nel canto, l'innocenza. Ecco. L'innocenza.
Testa, che cos'è questo Milk Wood? Un canto nostalgico, l'incessante, ingenua ricerca dell'innocenza perduta, un sogno a occhi aperti, una apocalisse nonsense, il testamento di Dylan Thomas... Dica lei.
«Milk Wood non rientra in nessun genere canonico. Risultato di un'idea che frullava in capo a Dylan Thomas da anni, si distingue anche dalle sue poesie più famose pur condividendone motivi fondamentali (dalla corporeità alla ricerca dell'innocenza). È come un'anguilla che sguscia da ogni parte. In certi momenti sembra un racconto, in altri un'onirica trasposizione di ricordi e sentimenti e, in altri ancora, una collezione di dati folclorici. Stupefacente che tutto questo si risolva in un'unità di grande compattezza compositiva. Vero prisma di una sensibilità capace di nutrirsi non solo delle proprie ossessioni ma anche delle voci del mondo».
Come si traduce Dylan Thomas, come lo si gioca? Lei scrive di aver tratto «soluzioni talvolta personali».
«Milk Wood è un testo per la voce, anzi per voci diverse. L'autore cambia registro, inflessioni e modalità di lingua a seconda dei personaggi. Ho tentato di rispettare questo aspetto e di non uniformare, ad esempio, l'andamento sussurrato e fluente della voce narrante e i veloci scambi di battute tra figure popolari. E l'unico modo per riuscirci è ricreare un ritmo ora sincopato ora avvolgente. A prezzo di mantenere ripetizioni che la sensibilità poetica italiana non ama, di proporre nuclei fonici che agiscano come chiavi musicali, di non regolarizzare la sintassi secondo rigidi parametri grammaticali. Le soluzioni personali sono in fondo la ricerca di una sintonia più profonda della resa letterale che, se utile in altri casi, non lo sarebbe stata in questo».
Estragga un verso, il bagliore di un dialogo che riassuma, in qualche modo, il carisma di Milk Wood.
«Le parti più rappresentative sono quelle recitate dalla voce narrante, e lo splendido duetto, nel sogno, tra Capitan Gatto e l'amata, e perduta nella morte, Rosie Probert. Ma sono troppo lunghe. Scelgo allora due versi della preghiera che ogni sera il reverendo Jenkins rivolge al Signore: Non si è del tutto buoni o del tutto cattivi/ Noi di Milk Wood che siamo ancor vivi. Non potrebbe esserci epigrafe migliore del sentimento qui dominante: la pietà, esente da ogni moralismo, per gli umani, il loro naturale valore e il destino mortale che lega gli uni agli altri».
Lei ha tradotto i poeti fondamentali, pressoché opposti, della poesia in lingua inglese del secondo '900: Philip Larkin e Dylan Thomas. Perché leggerli, oggi?
«Certo, Larkin e Thomas paiono porsi, anche ideologicamente, agli opposti della scrittura poetica. Cupo, corrosivo, legato all'orizzontale e ordinaria quotidianità, il primo; attento alle metamorfosi, agitato da soprassalti vitali e da spinte verticali tese a un senso ulteriore, il secondo. Ma con le loro ultime opere, Finestre alte e le poesie successive per Larkin, e appunto Milk Wood per Thomas, appaiono avvicinarsi: Larkin, scrivendo di vecchiaia, malattia e delle realtà non umane, rivela dietro il sarcasmo e l'ironia un profondo senso di pietà per l'esistenza; mentre Thomas, messo tra parentesi il suo io, si predispone, quasi con reverenza, all'ascolto delle passioni di un'umanità che, colta in un microcosmo tra il reale e l'immaginario, allude a ogni individuo e alla sua interiore e contraddittoria pluralità. Se queste non sono ragioni sufficienti per leggerli, mi chiedo quali altre potranno mai avvicinarci a un poeta».
Dove si va a spigare, oggi, la poesia? E che senso ha, ancora, la poesia, in questo tempo che sembra sempre terminale, che stiva la poesia, oltre la bruma dell'indifferenza, semmai, in convegni per addetti alla lirica, in dibattiti un poco onanistici, in una pratica esangue?
«Se la poesia ha un senso, è quello, per chi scrive, di percorrere i propri sentieri mentali, di prendere tempo e nuotare sott'acqua, di inseguire tracce perdute.
Che così si corra il rischio di essere avvolti nella nebbia, poco male. Ci sarà sempre, prima o poi, nella bruma o nel nebbione qualcuno che incrocerà la strada della poesia e del suo appello e che, leggendo, troverà nei versi i toni della propria voce, i frammenti della sua esistenza».
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