L'arte non è democratica, ma nessuno è più capace di riconoscerne le gerarchie

Uno non vale uno, anche se la critica ormai delegittimata dalla propria ignoranza vorrebbe farci credere che è così, ma i pensierini su Facebook non valgono come Leopardi

L'arte non è democratica, ma nessuno è più capace di riconoscerne le gerarchie

Un giorno forse diventerà chiaro che disastro ha prodotto nel tessuto sociale, culturale, umano dell'Italia la fine dell'insegnamento della poesia nelle scuole, un tempo fondamento primario del sapere e della continuità di una tradizione. La colonna vertebrale della lingua italiana è la poesia. Da Dante sino a Ungaretti e Montale. La formazione di un ragazzo avveniva confrontandosi (magari svogliatamente, magari ridacchiando, come si è sempre usato sui banchi scolastici) con la propria lingua e con coloro che l'hanno portata all'eccellenza espressiva ed etica. Poi è vero che certe letture capitali esulavano dalla scuola: così fu per me in terza Liceo, quando scopersi I fiori del male di Baudelaire e La nausea di Sartre. Ma intanto, nelle belle, insostituibili antologie delle Medie e del Ginnasio mi ero imbattuto in testi che, a ricordarli oggi, mi sembrano di una formidabile attualità morale: penso a La caduta di Giuseppe Parini (il cui oblio disonora la cultura milanese e italiana in genere), dove il vecchio famoso e povero poeta, caduto per una via della sua città trafficata da carrozze, reagisce con un soprassalto di rabbiosa dignità al suo soccorritore che lo esorta a vendersi al potere, a lusingare da ruffiano i potenti per poter avere una carrozza anche lui. E penso a La piccozza, in cui Giovanni Pascoli, socialista e insieme piccolo borghese, esprime la sua difficile, lacrimosa, dolorosa riuscita di self-made man.

La poesia allora in Italia era il fondamento su cui costruire le basi di un uomo completo, qualunque poi sarebbe stato il suo destino, ragioniere o ingegnere, commerciante o professore. I programmi scolastici l'hanno relegata nell'insignificanza. Ancora di recente un ministro della cultura incitava ad antologizzare i cantautori, mostrando uno spaventoso e colpevole appiattimento sul presente, e una ministra dell'istruzione andava nei Licei a propagandare la lettura accompagnata da un dj (sic). Un paese che non crede più nella sua lingua (vedi gli imbecilli scimmiottamenti dall'inglese, jobs act, rai educational, tipici di chi l'inglese non lo parla) è un paese in declino e in estinzione. Mi raccontava il mio amico poeta cinese Cai Tianxin che alla cerimonia finale di un grande premio di poesia a Pechino presenziava Xi Jinping. Non volevo credere alle mie orecchie. Ne avrà da fare il presidente Xi Jinping, a capo di un paese immenso e leader nel mondo! Eppure era lì: perché un grande paese in ascesa sa quanto la propria lingua e la propria poesia siano elementi inscindibili dal proprio cammino, politico, economico, sociale, verso nuovi traguardi.

Oggi la poesia, mediamente, è diventata in Italia pura esternazione emozionale: scollata da ogni valore letterario, intellettuale e civile. Uno si sveglia al mattino e scarabocchia i suoi privatissimi pensierini su un foglio o ancora meglio sulla sua pagina facebook: per carità, non c'è niente di male e non fa male alla salute. Ma dire poi che quella è poesia fa male all'intelligenza e alla vita culturale di un paese. Il fatto è che, con la caduta del sapere umanistico, cade anche la coscienza dell'attrezzatura che occorre per capire e valutare un testo letterario. Il romanzo ormai è sostanzialmente affidato alla valutazione del mercato e di classifiche che sono una forma di pubblicità occulta. Ma la poesia, che non ha mercato, che realizza l'utopia di un mondo senza denaro, come valutarla prescindendo da puri principi estetici, dalla conoscenza della tradizione, dalla sensibilità metrica, dalla capacità di individuazione di uno stile? Per fare tutto questo, occorrono strumenti. Quelli che la critica possedeva e faceva valere, selezionando l'eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito. Stabilendo una scala di valori. Un canone, perché no? Lasciando naturalmente aperta la porta a canoni nuovi. Ma la rilevanza centrale, che so, di Ungaretti e Montale è indiscutibile, se si parla di Novecento. Poi può arrivare uno a cui piace più Vigolo o Sinisgalli, ma quello è un problema di, sia pur legittimi, gusti personali. Quello che accade oggi è che nessuno, dico nessuno crede più in radicali, motivate, oggettive scelte di valore. Ogni critico italiano ha i suoi protetti, la sua solipsistica scuola. La poesia è un affare di botteguccia universitaria. E così tutto è appiattito e la poesia non conta più niente. Non fa più mondo. Non è più motore di civiltà. Siamo al principio dell'uno vale uno.

Già discutibile in politica, con la conseguente riduzione della democrazia a statistica, come aveva denunciato l'aristocratico e preveggente Jorge Luis Borges, diventa devastante in campo letterario e culturale: l'espettorazione di sentimenti di un ragazzino sveglio o di una cantante formosa vale Leopardi e Emily Dickinson? Nessuno lo crede veramente, ma certa stampa, la tv, i social, persino certe case editrici, nella mancanza di oggettivi valori, sostengono questo atteggiamento, propagandando il vuoto e il nulla. Così, con la sua lingua e la sua poesia, muore l'Italia. Ma forse non frega niente a nessuno.

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