Mircea Cartarescu ha 63 anni, ha pubblicato il primo libro quarant'anni fa, si è festeggiato con un nuovo romanzo - il più bello, dice - Melancolia, è stato più volte candidato al Nobel per la letteratura, è il più importante romanziere rumeno vivente - leggete la trilogia Abbacinante, please, un capolavoro - e per descriversi mi dice che è una termite. Le termiti costruiscono trame di tane intricate e imprevedibili. Come lo scrittore. Lo scrittore, come le termiti, divora ogni angolo della vita. Dall'ultimo romanzo di Cartarescu pubblicato in Italia, Il Levante (Voland, pagg. 222, euro 17), si emerge confusi, divertiti, sconcertati. Scritto trent'anni fa, «in un momento difficile della mia vita... quando, non credendo più nella poesia (tutta la mia vita fino ad allora) e nella realtà del mondo e nel mio destino su questa terra, mi sono deciso a occupare il mio tempo covando un'illusione», il libro è il tentativo, picaresco, folle, di creare un poema epico, alla moda di un Ovidio sbattuto in Transilvania e dilaniato da un Dracula che ascolta Lou Reed. Con sovrana gioia e narrativa dionisiaca, Cartarescu rifà il verso alla grande poesia rumena - tranquilli: Bruno Mazzoni, in calce al libro, vi dà tutte le coordinate del caso - in un romanzo eroicomico di spudorata meraviglia.
Il suo romanzo mi pare un'epopea ubriaca, la rincorsa a un poema impossibile. Come è nato, da quale impulso estetico?
«Quando la poesia mi ha stancato - avevo trent'anni, avevo scritto sei raccolte di poesie - ho cercato un modo per fuggirla. Così, ho pensato di scrivere qualcosa di diverso, un poema epico in 12 canti, come quelli di Omero o di Virgilio. A quel tempo leggevo i poeti rumeni del XIX secolo: ero incantato dal loro linguaggio, così ironico, così innocente. Ho cercato di imitare quello stile e la sua enfasi, ogni singolo verso allude a una certa epoca della poesia rumena, dagli inizi ai giorni nostri. Alla fine, mi sono trovato con 7mila alessandrini: insomma, avevo tra le mani un romanzo in versi. Non potevo pubblicare Il Levante negli anni Ottanta, perché contiene trasparenti allusioni alla dittatura di Ceausescu, per questo l'ho fatto dopo la rivoluzione del 1989. Il poema è diventato immediatamente un classico nel mio Paese, adesso si insegna nelle scuole e nelle università di tutta la Romania. Il problema con Il Levante è che è impossibile da tradurre: migliaia di versi con rime e ritmi che riguardano poesie sconosciute... Per questo l'ho riscritto in prosa. In questa variante il libro è stato tradotto in Svezia, in Francia, in Spagna e ora in Italia. Il poema ha perso parte della sua bellezza in traduzione, ma esiste, e il pubblico può leggerlo in versioni spesso sgargianti (in Italia, ad esempio, il professor Bruno Mazzoni ha fatto un lavoro straordinario)».
Nel Canto III lei innalza una specie di inno alla vanità di ogni cosa. Anche la letteratura è vanità. Al di là del gioco narrativo le chiedo: perché scrive? Che cosa resisterà del suo lavoro?
«Può chiedermi, allo stesso tempo, perché respiro o perché il mio cuore batte. Ho sempre scritto - lo farò sempre. Perché? Non ci penso. Non penso mai al tipo di letteratura che faccio. La faccio. Semplicemente. Scrivo senza documentarmi, senza piani, senza modifiche. Tutti i miei libri, anche quelli di oltre mille pagine, sono la prima bozza, escono così. Eppure, con mia sorpresa, i libri scritti in questo modo sembrano molto elaborati. La mia mente lavora in modo istintivo, come una termite: questo insetto non è un architetto né un muratore, costruisce senza alcun progetto nidi enormi, estremamente complessi. Questo perché l'insetto stesso è un progetto, un piano. Essendo fatto così, non può fare altro che costruire il suo nido, gigantesco. Il nido, in qualche modo, fa parte del suo corpo, è uno dei suoi organi. Per me è lo stesso: ogni libro è un organo del mio corpo; alcuni sono organi vitali, altri sono organi minori, ma tutti sono importanti».
In una pagina piuttosto intensa lei parla del sogno: quale significato ha il sogno nella sua opera? E il narcisismo?
«La realtà non è più reale del sogno. Soltanto la sofferenza rende la realtà evidente, aguzza. Se non soffri, fluttui nella vita come in un sogno. Nei miei libri non c'è differenza tra fantasia e realtà. Sono come i due lati dello stesso nastro di Möbius: nessuno può dire dove inizi l'una e finisca l'altra. Per questo, i miei libri sono a metà tra prosa e poesia. E, aggiungerei, sono in parte filosofia, in parte teologia, meccanica quantistica, musica etc. In ogni romanzo che pubblico, cerco di esprimermi completamente, ad ogni livello del mio essere, dalle paludi alle stelle, dalla scatologia all'escatologia...».
Quale libro l'ha formata? Quale libro vorrebbe aver scritto? Quale libro sta scrivendo?
«Avrei voluto scrivere Il castello di Kafka.
Non sopporto il fatto che Kafka lo abbia scritto prima di me. Ora non sto scrivendo: ho appena terminato Melancolia, uno dei miei libri più alti e trasognati. Ho bisogno di tempo per cambiare umore e idee, per ricominciare».
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