Avete presente le autrici italiani femministe di cui si parla tanto non per i romanzi che scrivono ma perché sono femministe? Oltre a sponsorizzarsi tra di loro, perché altro non hanno, evitano accuratamente di prendere come modelli donne che siano davvero grandi scrittrici (ammesso che uno debba giudicare un'opera perché scritta da una donna o da un uomo, un vero scrittore non ha sesso). E così Chiara Valerio cita la Murgia, la Murgia la Valerio, la Valerio e la Murgia la Tagliaferri (moglie della Lagioia), Daria Bignardi le cita tutte così anche lei è scrittrice, e via così.
In Italia nessuna che prenda a modello Barbara Alberti, perché non potrebbe essere un punto di riferimento, troppo inarrivabile, e inoltre non è femminista, è una scrittrice, o Isabella Santacroce (che tra l'altro, oltre a aver scritto opere importanti, vuole essere chiamata «scrittore», da isolare subito dal club delle suddette ricamatrici di centrini femminili rilegati).
Tra le immense scrittrici non italiane, tra i giganti c'è Joyce Carol Oates, altra innominabile, troppo brava, una bibliografia sterminata e mai proposta per il Nobel: d'altra parte pubblica opere, non pere narrative per casalinghe di Voghera (citando Arbasino, il genio di Fratelli d'Italia che nulla c'entra con il partito omonimo). L'ultimo libro uscito della Oates è L'altra te, edito da La Nave di Teseo, cioè da Elisabetta Sgarbi (altra grande donna vista con sospetto dalle femministe, perché da sola porta avanti il novanta percento della cultura italiana, e pubblica tutto, incluso me, sopportandomi come Gallimard sopportava Proust).
È una raccolta di racconti meravigliosi, con protagoniste donne, ma mai viste come donne, potrebbero essere anche uomini, cioè persone alle prese con una quotidianità che spesso diventa straniante. Ogni finale di racconto (a volte brevissimi) lascia sempre il lettore in bilico, con un effetto che i surrealisti e poi gli strutturalisti chiamavano «straniamento», scivolando dalla quotidianità in qualcosa di perturbante. Un semplice pranzo tra due amiche in un locale dove c'è stato un attentato che ha fatto una strage diventa sempre più inquietante. Una moglie con un marito sordo che si rifiuta di usare l'apparecchio acustico e che la chiama sempre inutilmente per essere rassicurato dalla sua presenza. La moglie è attenta a raggiungerlo ogni volta finché non cade dalle scale (unico spoiler di un unico racconto, per farvi capire), e lui resta a chiamarla ma stavolta davvero lei non c'è più, ironia della sorte e della morte. Personaggi femminili che hanno «paura di confessare qualcosa di indefinibile, a cui non sapere dare il nome», senza nessuna lagna femminista.
Nessuna infelicità che non sia esistenziale, biologica, legata alla disillusione del mondo e al decadimento dei corpi, alla resistenza individuale per cercare di essere felici, nonostante tutto. Vite che si guardano indietro e pensano che avrebbero potuto essere altro, avere un'altra vita. Quanti e quali eventi casuali ci hanno portato a essere quello che siamo? Siamo quello che avremmo voluto essere o abbiamo semplicemente seguito il percorso più facile? La persona che amiamo l'amiamo davvero o ci siamo convinti di amarla solo perché ci è capitata e era migliore tra le altre che ci sono capitate? L'altra lei siamo noi tutti, gli altri noi che avremmo potuto essere, chi non ci ha mai pensato?
Ovunque, inoltre, è presente l'invecchiamento, quella che Proust, nell'ultimo volume della Recherche, chiamava «l'evidenza della cosa terribile». Qualsiasi descrizione della Oates è un'apparenza che cela una tragedia nascosta, per esempio: «era una bella donna che tra poco non sarebbe più stata di mezza età; i suoi capelli biondi avevano perso lucentezza». Il tentativo di nascondere l'avanzare degli anni, l'occhio che cade su una ricrescita di capelli bianchi. Guardarsi indietro, senza vedere niente davanti. Molte illusioni perdute, a differenza di quelle di Balzac senza neppure provarci prima di perderle, vite di cui accontentarsi per errori giovanili, o per il caso di essere nate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Malattie, molte, come nei romanzi di Philip Roth o di Richard Ford, sopra a tutte il cancro, la malattia di cui abbiamo tutti il terrore, senza fronzoli consolatori. Rassegnazione leopardiana.
Potremmo chiamarlo un libro minimalista di Joyce Carol Oates, nel senso che nella narrazione di minimi eventi quotidiani viene in mente Raymond Carver, ma declinato da una sottile
angoscia che striscia dentro il lettore, un Carver passato da Stephen King ma anche da Stephen Hawking, ai confini della realtà ma senza mai superare quel confine, restando dentro la prigione del possibile che non lascia scampo.
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