Certo che esistono questioni metafisiche e terribilmente vitali che non si lasciano risolvere nettamente. Ad esempio: l'essere di Parmenide o il divenire di Eraclito, Aristotele replica Platone o lo supera, vale più Agostino o Tommaso, Kant vede più lungo di Hegel o no, Maradona è davvero migliore di Pelé? E poi c'è una questione che nessuno nemmeno Gianni Brera, per mettere subito le cose in chiaro è riuscito a risolvere: tra Eddy Merckx e Fausto Coppi chi era il più grande? Il ciclismo non è uno sport, non è una disciplina, non è un gioco. Il ciclismo è l'epica dei tempi moderni. Costa fatica ma il premio è qualcosa di più della verità: la leggenda. Paolo Pascucci con la sua Piccola fenomenologia del ciclismo su strada (Aras edizioni, pagg. 228, euro 16)) si è sforzato di scrivere un testo rigoroso, erudito, preciso, a tratti scientifico (sempre che significhi qualcosa). Ma alla fine, nel terzo capitolo, quello dedicato a Merckx e Coppi, non ce l'ha fatta più e ha dovuto lasciare il campo della cronaca e della scienza per passare, pedalata dopo pedalata, all'epica letteraria e inchinarsi davanti alle due più grandi figure del ciclismo moderno: il Cannibale e il Campionissimo (o l'Airone, com'era anche detto il grande Fausto).
Bisogna fare una precisazione. Per ciclismo moderno s'intende quello che vien fuori dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e giunge a noi fino a esplodere con il doping e le storie smisurate di Marco Pantani e Lance Armstrong. La preistoria del ciclismo è il suo stesso mito, quando «le corse partivano all'alba, quando non di notte, e spesso arrivavano la notte successiva» e chi correva i corridori aveva nomi ormai davvero epici e leggendari, eroici e omerici: Lucien Petit-Breton, Luigi Ganna, Carlo Galletti, Eberardo Pavesi, il Diavolo rosso Giovanni Gerbi, quindi Bottecchia, Binda, Girardengo e Learco Guerra. Ma per noi, noi che abbiamo nelle orecchie e nella fantasia ancora le telecronache di Adriano De Zan «ecco Passuello, Mugnaini, Dalla Bona, il belga Tony Houbrechts... e ancora Panizza, Gimondi, Saronni, Moser» l'epica del ciclismo reca i nomi di Coppi e Bartali e poi lui, lui, quel Edouard Louis Joseph Merckx detto Eddy. Forse, il ciclista più grande di tutti i tempi. Perché? Perché ha vinto di tutto e più di tutti? Il Giro, il Tour, la Vuelta. Su strada, su pista. E tutto quanto si possa pensare e immaginare. Forse. Ma c'è dell'altro.
Eddy Merckx, che andava forte in salita, in discesa, in pianura, andava ancora più forte e va ancora ancora più forte, che Dio lo abbia in gloria quando vorrà, naturalmente in bicicletta nel riconoscere la grandezza di Coppi. Perché la questione metafisica da cui siamo partiti Platone o Aristotele, Maradona o Pelé, Merckx o Coppi è stata risolta con tanta, tanta saggezza in questo modo, sia da Brera sia da Gianni Mura: Merckx è stato il più forte, Coppi il più grande. I numeri dicono questo: il belga ha vinto il Tour 5 volte, il Giro altrettante, la Vuelta una, quindi 3 mondiali, 19 classiche; l'italiano ha vinto il Giro 5 volte, il Tour 2 volte, una volta il mondiale e 9 classiche. Se, dunque, guardiamo i numeri la storia finisce qua e non c'è storia per nessuno per chissà quanto ancora, visto che il tempo dell'epica ciclistica è finita. Ma se diamo ascolto al Cannibale le cose son diverse. In un'intervista rilasciata a il Giornale 9 gennaio 2010 per la firma di P.A. Stagi è proprio Merckx a dire: «Le vittorie di Coppi sono diventate romanzo, le mie cronaca. Le strade, l'audacia, l'epica, che il mio ciclismo non ha mai avuto, per via della tivù che ha cominciato a far vedere le corse e le immagini, si sa, atrofizzano la fantasia. Coppi però, anche da pareri qualificati, ha avuto anche il grande merito di traghettare il ciclismo verso la modernità. E poi giratela come volete, ma la grandezza di Coppi sta tutta nella sua assenza. Uno come Coppi manca». Grande ciclista, grandissimo signore.
La verità è che questioni del tipo «che cosa sarebbe successo se Napoleone non avesse perso a Waterloo» come giustamente rimarca Paolo Pascucci non hanno senso alcuno, eccetto quello di darci il là o la pedalata per farci discutere di cose belle come la potenza di Eddy o l'eleganza di Fausto. Non è solo la Storia a non potersi fare con i se e con i ma: è anche la storia del ciclismo, che fa parte della nostra vita, a non potersi fare con i se e con i ma. I due grandi ciclisti appartengono a epoche diverse, come Dante e Leopardi, ma in entrambi la pedalata ha un valore in sé non comparabile con altro, proprio come son diversi e uguali gli endecasillabi dell'Alighieri e di Giacomino. Nel ciclismo ciò che conta è l'impresa, la scalata. Diceva Merckx: «Quando la strada sale non ti puoi nascondere». Nella 17a tappa del Giro d'Italia del 1949, la Cuneo-Pinerolo di 254 km, Coppi andò in fuga in splendida solitudine, scalò da solo il Colle della Maddalena, il Col de Vars, l'Izoard, il Monginevro e il Sestriere e giunse a Pinerolo con più di 11 minuti su Gino e quasi 20 su Alfredo Martini.
Ben 190 km di fuga e la celeberrima radiocronaca di Mario Ferretti: «Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». E a me, per la bellezza di tutto ciò, vien da piangere di gioia.
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