La letteratura come volo fra parole sussurrate

Da pilota provetto, osservava dall'alto gli eventi della vita. E li raccontava con misurata eleganza

La letteratura come volo fra parole sussurrate

È morto, all'età di 72 anni, lo scrittore Daniele Del Giudice. Nato a Roma, esordisce nel 1983 con il romanzo "Lo stadio di Wimbledon", scoperto da Italo Calvino. Il suo secondo libro è Atlante occidentale (1985), che racconta il rapporto tra il fisico Pietro Brahe e lo scrittore Ira Epstein. Sabato prossimo, a Venezia, avrebbe dovuto ricevere il premio Campiello alla carriera.

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Quando se ne va un grande scrittore se ne va anche, ci piaccia o no, un pezzo di noi. Non importa se con questo scrittore ci fosse assonanza di idee, di temperamento, e non importa nemmeno se fosse tra quelli più frequentati. La grandezza possiede un'oggettività che oltrepassa ogni simpatia, va soltanto riconosciuta.

Del Giudice e io ci siamo incontrati due volte. La prima volta venne a Milano, su mio invito, per un ciclo che avevo intitolato «L'officina del racconto». Il salone si trovava in un locale seminterrato a cui si accedeva scendendo una scala. Lo vidi scendere quella scala, illuminarsi e tendere allegramente la mano. È la fotografia che conservo di lui.

Tra le cose che mi disse prima dell'incontro, una rimane nel mio cuore: «È importante - disse - che esistano scrittori come te». Non fu tanto il complimento a colpirmi, quanto il fatto che, a differenza di me, Del Giudice avesse una precisa idea della letteratura italiana di quel momento. C'era in lui una specie di mappa in cui emotività e lucidità si fondevano. A lui interessava capire dove mi trovavo io, che posizione occupavo nello spazio e nel tempo.

A quel tempo avevo letto di lui i primi due romanzi: Lo stadio di Wimbledon e Atlante occidentale, che presentano quello stesso modo, unico (fu definito, a torto, l'erede di Italo Calvino, mentre era soltanto Daniele Del Giudice), di affrontare il mistero della realtà: sorvolarla, con l'aiuto di strumenti di orientamento. Raccontare era per lui questo, una metafora del volo.

Il primo dei due romanzi racconta di un giovane scrittore sbarcato a Trieste per ritrovare le tracce di un grande personaggio (Roberto Bazlen) che, pur essendo una figura di primissimo piano nel mondo letterario, non pubblicò mai una riga. Lo scrittore si rende conto che la parola di per sé non illumina il mondo, che le narrazioni non salvano. Occorre interrogare il silenzio ma non per carpire segreti: solo per capire meglio dove ci troviamo.

Il romanzo appare come una specie di caccia al tesoro (una forma molto frequente negli anni Ottanta), non un intrigo ben orchestrato ma un cammino di ricerca. Trieste, frequentata secondo una meticolosa mappatura dei luoghi, non gli viene incontro con il suo passato a buon mercato, la sua mitologia letteraria: eppure gli offrirà alla fine un volto di donna, una memoria, un racconto con personaggi, vicende non raccontate, avventure taciute. Qui l'equivoco dei luoghi (pensiamo a quando andiamo a visitare una città armati di guida turistica che ci indica ciò che dobbiamo sapere e vedere) si mostra: cosa significa sapere, vedere?

Il bellissimo, sontuoso Atlante occidentale presenta ancora uno scrittore, stavolta più anziano, e la crescita della sua amicizia (o forse di una cauta ma innegabile affinità) con un fisico. Scienza e scrittura si fronteggiano nel segno del dubbio: come la fisica quantistica comporta un'ultima indeterminazione dei fatti osservati, una sorta di ambiguità dei fenomeni studiati, così porre una parola sulla pagina, un nome, l'evocazione di un'immagine, aggiunge e insieme toglie qualcosa. Atlante occidentale è celebre anche per l'autentico pezzo di bravura che è la descrizione a voce, fatta dallo scrittore, di uno spettacolo di fuochi d'artificio: dove la parola ferma l'effimero, trattenendolo dallo scomparire, e insieme si appoggia tutta su quella scomparsa. La parola è certa di ciò che non è più.

Il secondo incontro tra noi fu una sorpresa. Ero a Mestre a presentare, in una libreria, di fronte a pochi uditori, un mio romanzo quando, guardando verso il fondo della sala, riconobbi Del Giudice, quasi in incognito. «Sono venuto per salutarti», disse, sorridendo, poi andò via. Anche questa volta ebbi la piacevole sensazione che quell'uomo sapesse meglio di me chi era venuto a salutare.

In seguito ho letto altri libri di Del Giudice: da Staccando l'ombra da terra ai racconti di Mania fino a quella bellissima raccolta di scritti d'occasione che è In questa luce: tutti editi da Einaudi.

Ho conosciuto due soli scrittori, nella mia vita, capaci di tratteggiare con esattezza la propria posizione nel mondo: lui e il suo opposto, Giovanni Testori. Testori leggeva tutta la propria opera nella continua oscillazione tra fuga e ritorno, tra bestemmia e implorazione, tra Bacon e Moroni, tra Picasso e Gaudenzio Ferrari. Del Giudice veleggiava tra l'incertezza della letteratura e quella del volo (era pilota provetto), due mondi, due circostanze esperienziali incommensurabili tra le quali lo scrittore ha saputo stabilire un impossibile ponte.

Chi ama la letteratura non può non amare l'esattezza, unita al rammarico della precarietà, della scrittura di Del Giudice. La sua scrittura è stata un atto di conoscenza, e come ogni atto di conoscenza ha richiesto un grande esercizio di umiltà. Non tutti la pensano così. C'è chi pensa di poter raccontare quello che non sa, o che quello che sa sia sufficiente a dar conto della realtà.

Ma per fare un passo dentro la nebbia delle cose occorre lasciare le armi, accettare la propria debolezza, e fornirsi dunque di mappe, di sestanti, imparare a interpretare le stelle. Le parole di Del Giudice sono parole caute, strappate al silenzio, colte come fiori nella grande serra della non-letteratura. Come ne Lo stadio di Wimbledon, quando il silenzio della città prende voce di una donna.

Sono le parole limpide di chi, senza evocare massimi sistemi, frequenta l'ombra, la parte della realtà che non fa proclami, che non si rivela, e che solo il rispetto, il senso di responsabilità e la discrezione possono rendere udibile: come quei grandi attori di teatro che, sussurrando, riescono a farsi sentire perfettamente là dove anche il grido, se incontrollato, rischia di

perdersi.

Solo un grande scrittore affronta il proprio difficilissimo compito con questa coscienza. Daniele Del Giudice è stato un grande scrittore, e mancherà a tutti: anche a quelli che hanno pensato di poterlo ignorare.

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