Occorre partire dalla fine, cioè dalla chiave di lettura con cui, senza accorgercene, abbiamo «aperto» la Casa di foglie e vi siamo entrati. La chiave di lettura è: Casa di foglie è un romanzo della lettura. Non un romanzo sulla lettura, come a ben vedere sono quasi tutti i romanzi, in cui il protagonista principale è il lettore che li legge. Tuttavia Casa di foglie è un romanzo della lettura con tratti somatici e caratteriali assai differenti da quelli di un suo antico e glorioso progenitore, il Don Chisciotte. Nell'opera di Cervantes la lettura compulsiva dei romanzi cavallereschi provoca nel «cavaliere dalla trista figura» una specie di sindrome: per lui tutto è riconducibile a quel mondo lì, a quell'area semantica lì, e a null'altro. Nel Don Chisciotte la patologica passione dell'eroe per la lettura è direttamente, linearmente, meccanicamente la causa degli effetti letterari che produce, e che l'arte di Cervantes raccoglie e cataloga. Invece in Casa di foglie la lettura colonizza la scrittura bulimicamente, con modalità rizomatiche, se ne appropria, la fagocita, la ingoia, la digerisce e la espelle sotto nuova forma. In altri termini, trasforma la lettura in scrittura.
Detto della fine, ora occorre partire dall'inizio, anzi dall'antefatto. Casa di foglie del 53enne newyorkese Mark Z. Danielewski torna oggi nelle librerie italiane in una nuova e arricchita edizione dopo quella Mondadori del 2005 (66th and 2nd, pagg. 760, euro 29, traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti). Nel 2000 il romanzo aveva dato il benvenuto al Terzo Millennio delle lettere americane con un botto clamoroso, diventando laggiù in men che non si dica un libro di culto. Ma questo poco importa: i culti si sprecano, nella vigente orgia di pagano sincretismo editoriale. Importa di più, invece, la forma sotto cui Casa di foglie si presentava e ora si ripresenta: un rutilante esempio di letteratura ergodica. Il parolone, coniato nel 1997 dallo studioso di videogiochi e letteratura elettronica Espen J. Aarseth, indica i testi scritti che richiedono al lettore «sforzi non superficiali» (cioè non tradizionali e basici come leggere le righe nell'ordine voluto dall'autore) per «attraversarli». Insomma, materiale tipo I Ching, il libro dei mutamenti cinese, i calligrammi di Apollinaire che diventano figure, i Cent mille milliards de poèmes di Queneau. Per dirla con Foucault, tante parole, sì, ma anche tante cose.
Ebbene, calandoci, con angosciosa prudenza da speleologi, nella cavità di Casa di foglie, avvertiamo fin dal primo passo l'inquietante presenza della Lettura al nostro fianco. Accade infatti che Johnny Truant, il nostro piccolo Dante del quale seguiamo il lungo viaggio in questa drammatica commedia, essendo in cerca di un nuovo appartamento accoglie la segnalazione dell'amico di bisbocce alcoliche e psicotrope Lude. Un vicino di Lude, un vecchio cieco e strambo incantatore di gatti randagi, è morto, quindi... Quindi Johnny, come noi, fa anch'egli il primo passo in giù, verso il sotto, verso gli inferi. Perché in casa del vecchio cieco (e diciamo subito che nell'apparato iconografico di Casa di foglie a un certo punto compare, confusa fra decine di ritagli, di oggetti, di bacheche pro-memorialistiche molto narrative, molto testuali - come quelle che dettano al Roger «Verbal» Kint de I soliti sospetti la storia per lui salvifica, liberatoria - una foto di Jorge Luis Borges, il più celebre narratore cieco della storia dopo Omero) Johnny trova un infinito testo diffuso, rizomatico, appunto, di migliaia e migliaia di parole scritte ovunque (persino sul retro dei francobolli) da leggere, e soprattutto da decifrare. Fin qui, tutto sommato, nulla di davvero eclatante: quante volte ci siamo imbattuti in un libro nel libro? Ma a questo punto Danielewski, figlio del regista cinematografico di origini polacche Tad Danielewski, imbocca la strada, anzi la claustrofobica fessura giusta. Il lettore Johnny legge, insieme al lettore, una sorta di frammentario saggio su un fantomatico documento filmato. Dunque abbiamo un cieco che scrive, dettando (lo apprenderemo presto) ad alcune belle ragazze (le sue Moire?) che a loro volta gli leggono libri sul film, un libro sul film che non ha potuto vedere (o forse è diventato cieco dopo averlo visto? Questo interrogativo, il più gotico di tutti, non avrà mai risposta). Non c'è male. Ma, del resto, ogni lettore è a sua volta cieco nei confronti delle immagini che ogni libro gli propone, e si limita a... immaginarle.
Di che cosa si tratta? Della pellicola «La versione di Navidson», girata da Will Navidson, fotoreporter di grido onusto di gloria con tanto di un premio Pulitzer in salotto. L'orrore è qui, in quest'altra casa, dopo quella del vecchio. Una casa che si rivela, per Will, sua moglie Karen, i loro bimbi Chad e Daisy, il gatto Mallory e la cagnetta Hillary, infestata non da banali spettri, ma da un mostro. Meglio, il mostro è la casa stessa, che cresce su se stessa, dentro se stessa, senza che, fuori, il mondo se ne accorga. La casa diventa cioè un labirinto in cui Navidson, il fratello fumato Tom, l'amico ingegnere in sedia a rotelle Billy, l'esploratore in stile marine Holloway e due suoi collaboratori, s'infilano con il piglio di irrazionali prede di un nuovo Minotauro.
Il rimpallo fra il testo del vecchio e le fluviali note che Johnny gli pone in calce e che a loro volta, in un crescendo ossessivo e ossessionato, colonizzano e prevaricano, crea una doppia lettura. Come il vecchio che legge con gli occhi delle sue belle interpreti (e se fossero delle ghostwriter?) e poi scrive parlando, anche Johnny scrive leggendo, alla maniera del medium il quale certifica, con il testo-documento inconsapevole della sua scrittura automatica, un messaggio inviatogli dall'Aldilà. Così la trama propriamente romanzesca, che potrebbe essere il plot di un B movie, proprio come la casa dei Navidson monta a dismisura in un'affabulazione di testimonianze, deposizioni, studi, trasmissioni televisive, epistolari (struggente quello della madre pazza di Johnny, una Penelope senza più Ulisse che ingarbuglia i fili della sua tela) dalle forme grafiche e geometriche, loro sì, ergodiche.
Casa di foglie, in ultima analisi, è anche più di un romanzo della
lettura. È un albero della vita che si ricongiunge a quello della conoscenza del bene e del male. Del resto entrambe, sia la vita, sia la differenza fra il bene e il male, sono testi sacri da leggere con estrema attenzione.
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