Lezioni di storia d'Italia ma senza partigianerie

Francesco Rosi ha "filmato" l'anima del Paese, dalla Grande Guerra al boom economico. Regista impegnato politicamente, non ha mai fatto prevalere l'ideologia sull'estetica

Lezioni di storia d'Italia ma senza partigianerie

Se si dovesse conservare un solo frammento dell'intera produzione cinematografica di Francesco Rosi, bisognerebbe rovistare tra le immagini impastate nel bianco e nero di Salvatore Giuliano (1962). Soffermarsi a esempio sulla lunga sequenza dell'arresto di massa in un paesino della Sicilia. Rosi ha bisogno di campo aperto, nel quale inserire militari infagottati in divise sgraziate. Militari che arrestano uomini in camicia bianca e poveri panni e coppole scure. Li ammanettano e l'un l'altro sono uniti dalle catene. E le loro donne, tutte vestite di nero, i capelli in disordine, gridano e piangono e li trattengono. Gli uomini - chi arresta e chi è arrestato - non si scompongono. Ciascuno recita un ruolo codificato. Giovani e vecchi. In silenzio. Con durezza. La durezza della povertà meridionale. C'è chi strattona e chi si lascia strattonare. Lo spazio geografico che contiene questa magistrale scena ha le sembianze dell'umanità che l'abita. Piccole case slabbrate. Mura smozzicate. Povere strade polverose. Qualche cane spaesato dal trambusto. Il neorealismo che il giovane Rosi aveva respirato accanto al grande Luchino Visconti in La terra trema (1948) si sublima. Addirittura supera il maestro poiché Salvatore Giuliano è l'incontro più riuscito tra la poetica della strada di Cesare Zavattini e il meridionalismo di Antonio Gramsci. Etica ed estetica.

Francesco Rosi è stato fra i maggiori registi della seconda metà del Novecento. Non del cinema italiano. Ma del cinema. E se a provarlo non basta Salvatore Giuliano , ecco una raffica di opere mirabili: Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973), Cristo si è fermato a Eboli (1979). Una storia d'Italia per immagini. La prima guerra mondiale, il fascismo, la mafia italo-americana, il boom economico. Tutto scorre sul volto di Gian Maria Volonté, che a questa carrellata nazionale ha saputo infondere mimica straordinaria. Rosi ha creduto fermamente nell'impegno civile e politico. Però non ha mai fatto prevalere le ragioni dell'ideologia su quelle dell'estetica. E si è tenuto prudentemente distante dalla ferraglia comunista che ha imperversato nelle rappresentazioni artistiche del secondo dopoguerra. Ha insistito senza sosta su un punto: l'esistenza nella storia repubblicana di un «doppio Stato». Uno «Stato nello Stato» non democratico, violento e barbaro. Uno «Stato nello Stato» succube degli interessi americani a tal punto da liberarsi del suo miglior capitano di ventura, Enrico Mattei. Uno «Stato nello Stato» in costante attività per opporsi alle forze del progresso.

Naturalmente che la storia repubblicana sia attraversata da ombre sinistre, da Portella della Ginestra al rapimento e uccisione di Aldo Moro, è un dato di fatto. Ma il mito del «doppio Stato» è appunto uno dei tanti miti (non storia) che aiutano a non comprendere le vicende italiane dalla caduta del fascismo alla stagione del terrorismo. Chi oggi rivede Cadaveri eccellenti (1976, non certo l'opera di Rosi più riuscita, tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia Il contesto ), trova l'ennesima conferma dell'esistenza di un piano superiore, naturalmente occulto, nascosto nelle pieghe delle più importanti istituzioni.

Convincimento assai diffuso, tale da non risparmiare il sulfureo talento comico di Mario Monicelli ( Vogliamo i colonnelli , 1973) e in grado di scalfire persino il sofisticato tradizionalismo di Visconti ( Gruppo di famiglia in un interno , 1974). Ma quello di Rosi è stato un errore di generosità. La sua onestà intellettuale è fuori discussione. Come non si discute il suo grandissimo talento.

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