La lotta armata bolognese narrata dall'altro Manzoni

L'autobiografia dello scrittore e pittore Gian Ruggero è un omaggio letterario alla generazione del 1977

La lotta armata bolognese narrata dall'altro Manzoni

Non è certo un salotto, piuttosto un assalto. Per gli agiografi, l'ultimo libro di Gian Ruggero Manzoni, l'unico artista italiano vivente protagonista di un romanzo bello, per altro, Il risolutore, firma Pier Paolo Giannubilo, stampa Rizzoli, è stato a un passo dalla cinquina dell'ultimo Strega che meritava di vincere , è un tassello per ricostruirne l'articolata ed enigmatica biografia. Il sacrificio dei pedoni (Castelvecchi, pagg. 174, euro 18,50) racconta il momento fondamentale della vita di Manzoni, la stimmate e lo squarcio: a vent'anni, nel 1977, l'autore che nel romanzo vitale e vitalista è detto il Conte è arrestato, nell'ambito dei torbidi bolognesi, per detenzione illegale d'armi. Con l'aiuto del padre, sceglierà di trasmutare la condanna (con «fedina penale ripulita») in una «richiesta immediata di partire volontario nelle Forze Armate». Il carcere coincide con una agnizione che diventa poetica del ribelle: «Da quel momento a oggi i poteri occulti che governano, da oltre settant'anni, la nostra nazione non hanno avuto più alcun ostacolo al fine di mettere in atto ciò che poi abbiamo visto di empio, ridicolo, falso e immorale in questi ultimi decenni. È stato allora che ho deciso di dare battaglia al Sistema con tutti i mezzi possibili, fregandomene di bandiere idealità, schieramenti».

Detta così, sarebbe la storia di un narcisista, da alcuni declamato alfiere dell'antimodernismo, da altri dileggiato come mercenario, crociato, fascista rosso d'altronde, Manzoni ha sempre cercato d'intorbidare le acque, in una specie di pudore furente, ferito, dandosi, semplicemente, alla verità della propria opera, alla macchia dal pettegolezzo. Piuttosto, questo romanzo è l'ennesima testimonianza che Manzoni è un cobra e una fenice, ti avvelena mutando. Intendo: Manzoni, coerente alla propria anima ferina e cabbalistica, con il linguaggio può fare qualsiasi cosa, è uno scassinatore del verbo. Sostanzialmente poeta, di lucidità epigrafica quest'anno ha pubblicato Nel profumo delle catacombe (L'Arcolaio); gran parte del suo lavoro, immane, è disperso in edizioni d'arte, in una specie di samizdat del meraviglioso , Manzoni alterna il noir biblico-esistenzialista (Acufeni, 2014) al romanzo storico che corrode il sacro (Il Morbo, 2002, libro straordinario), l'epica violenta (Una macchia nel sole, 2009) all'etica del manifesto (Lunga vita al Genius Loci, 2016), sa scrivere di teatro con calura mistica (Il sonno di Macbeth, 2009), traduce la Bibbia (Esodo, 2010), affoga, con piglio da saggista, nei miasmi della Storia (Romagna alla garibaldina, 2018).

In questo caso, il romanzo della lotta armata bolognese, delle ambizioni perdute e della giovinezza bestemmiata è gestito con la lingua di quegli anni lì, l'esasperazione sgrammaticata dei tardi Settanta (con riferimento al primissimo lavoro di Manzoni, il «Dizionario del linguaggio giovanile» Pesta duro e vai trànquilo, edito da Feltrinelli nel 1980). Il libro, picaresco, a tratti circense, nasce perciò in omaggio a Pier Vittorio Tondelli, antico amico di Manzoni si inizia con una telefonata a PVT, «Il Pier è a Correggio. Ha mollato Bologna quando sono andati i primi sbudellamenti» e a quella generazione di geniali corsari scassati dalla Storia, «Andrea, il Pazienza» che «ti faceva vedere quello che aveva disegnato la notte prima», e poi «Francesca, l'Alinovi... il Carlo, il Mazzacurati... quello scoppiato di Roberto Freak Antoni e degli Skiantos». Ai capitoli gioiosi, bombardati di luce, come lo è la giovinezza per quanto scandita dallo scandalo, s'alterna la tenebra della lotta: il libro, allora, con la prepotenza degli assoluti («Difficile fermare l'eroe o il nulla... difficile poterli fermare quando si è dato già fuoco alle micce», dice Manzoni in un ultimo dialogo con Tondelli, suo sodale opposto, il gemello capovolto), cresce in una specie di requiem, un regesto degli amici morti durante quella maledetta guerra civile, o sommamente predati da scelte sbagliate. È allora che si eleva il Manzoni più estremo, che fa coincidere vita e morte sulla punta del mignolo («Giusto il sangue, o la morte, condisce la vita con quel tocco da renderla quel tanto più saporita, anche se ciò parrebbe disumano, ma è proprio il disumano... cioè: il non umano... che, spogliandoci di pietà, di comprensione, di solidarietà, di fratellanza, ci fa riconoscere, da spietati, che specie delirante, crudele, innaturale, appunto estranea al restante di questo pianeta, sia la nostra; come noi si sia totalmente diversi dal contesto in cui viviamo, caduti su questa terra da chissà quale cielo o emersi da chissà quale tenebroso abisso»).

Il Manzoni faustiano, shakespeariano, dico, che accoltella e benedice, e trama ancora rivoluzioni, forse, a Lugo, luogo avito, di banditi e di canti sanguinari, e di certo osserva questa umanità sbandata con spietata compassione.

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