Nel 1967, uno dei pochi motivi che potessero spingere un ragazzo sedicenne e non conformista ad accarezzare l'idea del matrimonio, era la possibilità di ritrovarsi in casa e in camera da letto la Giuliana-Monica Vitti di Ti ho sposato per allegria... Era un film delizioso, girato in una Roma poetica e geometrica, diretto da un regista che ha dato al cinema più di quanto si voglia ammettere, Luciano Salce, e con protagonista maschile un grande attore teatrale che il cinema non ha mai saputo veramente sfruttare, Giorgio Albertazzi, l'avvocato Pietro, compassato e con la pipa, marito appunto di Giuliana.
La Vitti aveva allora 36 anni, ma non li dimostrava per niente, aveva esordito un decennio prima e in questo arco di tempo aveva fatto in tempo a incarnare l'esistenzialismo in bianco e nero di Michelangelo Antonioni, da Avventura a Deserto rosso, la prima spia al femminile, Modesty Blaise, a prestare il suo volto a film a episodi, allora di gran moda, che non a caso si intitolavano Le bambole, Le fate, e vedevano alternarsi Virna Lisi, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale, Raquel Welch. Fra di loro la Vitti teneva il passo, con una bellezza tutta sua, né classica, né estrema, una bellezza buffa, su cui torneremo, il che vuol dire che era altrettanto brava e magari qualcosa di più.
Quel qualcosa di più Ti ho sposato per allegria lo illustrava benissimo, ed era un misto di indolenza e simpatica cialtroneria, lo stare fra le nuvole e il saper all'improvviso scenderne, il non dare peso alle cose serie e prendere sul serio quelle futili. Sposa giovane e incapace, nella nuova casa ancora non del tutto arredata Giuliana attendeva la visita della suocera come gli studenti impreparati attendono l'interrogazione che ne svelerà l'ignoranza... En attendant, ripitturava a suo modo le pareti, sognava flirt impossibili, tradimenti suoi e del marito raccontati a quest'ultimo con brio e grazia e sempre accolti da una risata liberatoria. Raramente, come in quella pellicola, la Vitti ha interpretato sé stessa, affabulatrice ingenua, spericolata e però insicura, sempre e comunque bisognosa di sognare.
Una bellezza buffa, abbiamo detto. Il fatto è che prima della Vitti c'erano state sì le attrici comiche, così come le attrici ironiche, ma da Titina de Filippo a Franca Valeri, due nomi a indicare i due generi, l'elemento estetico non faceva parte, come dire, del ruolo, e anzi era vivamente sconsigliato, a meno che non si trattasse di un certo teatro di rivista, dove però i canoni venivano mischiati e alla soubrettina, si chiamasse Delia Scala o la Lauretta Masiero immortalata dal Testori di La Gilda del Mac Mahon, si chiedevano oltre le belle gambe e il bel canto quel certo non so che dove la spigliatezza faceva sorridere. E va da sé che dal teatro di rivista al set cinematografico il salto per le soubrettine in questione era un salto mortale.
Monica Vitti, invece, faceva ridere nonostante fosse bella e restava bella per quanto facesse ridere. Ciò la metteva alla pari con i mattatori della Commedia all'italiana che nella seconda metà di quel decennio andavano ridisegnando i canoni con cui quel genere era stato tenuto a battesimo, in primis Alberto Sordi, di cui sarà non tanto spalla, ma controparte di identico peso. Uno degli elementi di questa bellezza buffa era la voce, una voce roca che faceva da contrasto con l'azzurro degli occhi e il biondo dei capelli e quindi ne faceva una bionda con la voce di una bruna, leggermente strascicata inoltre nella sua romanità.
Monica Vitti se n'è andata a novant'anni, anche se da almeno venti la nebbia della malattia l'aveva allontanata da sé stessa e dagli altri. Superati i settant'anni, c'è come un vento improvviso che si mette a scuotere l'albero della vita e rapidamente lo dirada delle foglie che erano lì come da sempre e che così a lungo ci avevano accompagnato. Un ventenne di oggi non ha mai visto un film della Vitti al cinema, con tutto quello che negli anni a cui prima abbiamo accennato andare al cinema significava, un rito e un mito che sempre più stancamente ha retto fino all'ultimo decennio novecentesco, e oggi fatica a ritrovare e a capire quella magia. Prima della pandemia, a Parigi, un paio di cinema d'essai del Quartiere latino proiettavano instancabilmente la prima Vitti, quella di Antonioni, dell'incomunicabilità.
In un'altra sala sulla stessa via, altrettanto instancabilmente era la volta di Drame de la jalousie, dove il pizzaiolo Giancarlo Giannini sfornava per lei, fioraia appassionata di fotoromanzi, pizze a forma di cuore... Esistenzialista eppure vitalista, che si vuole di più?
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