"La malattia che affligge la cultura europea? Il nichilismo che ci leva ogni scopo superiore"

Nell'era della post verità e della globalizzazione l'uomo si sente sempre più perduto e senza radici L'unica speranza per il futuro è riscoprire il senso della comunità e i valori dell'appartenenza

"La malattia che affligge la cultura europea? Il nichilismo che ci leva ogni scopo superiore"

Proseguiamo la nostra rassegna intervistando Marcello Veneziani, classe 1955, filosofo, politologo, saggista (tra gli altri, La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all'Occidente, Di padre in figlio. Elogio della tradizione, La cultura della destra e il recente Alla luce del mito), commentatore Rai, fondatore e direttore di riviste (L'Italia settimanale, Lo Stato), firma autorevole di prestigiose testate (tra cui Il Giornale d'Italia, Il Borghese, L'Indipendente, il Giornale, Libero, il Tempo) nonché esponente di spicco del pensiero di destra, benché di una destra più radicata nella tradizione e meno interessata al mercato, conservatrice e rivoluzionaria al tempo stesso, secondo la formula da lui stesso coniata («rivoluzione conservatrice»). Di lui, lo scrittore Pietrangelo Buttafuoco ha scritto: «Tutto in lui luccica: la scrittura, il pensiero, la proposizione concettuale».

Marcello Veneziani, qualcuno ritiene che il male profondo dell'Occidente sia da individuare nel nichilismo che caratterizza la sua storia recente (e forse non solo). Lei che ne pensa?

«Il nichilismo è la malattia dell'Occidente. La morte di Dio e di ogni proiezione superiore, l'assenza di scopi, la perdita di significato e l'insensatezza della vita. Come in una filiera, la morte di Dio è diventata poi la morte dell'uomo o la sua riduzione a materiale in transito, la fine della fede non ha liberato il pensiero ma ha trascinato con sé il pensiero, la fine del mito non ha esaltato il logos, ma ha piegato entrambi al puro e disperato vitalismo...».

Come giudica la cultura di massa? È vera cultura? Ha qualcosa in comune con il sapere e la conoscenza tradizionalmente intesi?

«La cultura popolare è una ricchezza da tutelare e da promuovere; quella che solitamente si chiama cultura di massa è solo una forma di consumo di massa, indica gusti e tendenze, non orientamenti di vita o visioni del mondo. Una vera cultura connette, collega una persona a una comunità e il presente al passato e al futuro; se si limita a suscitare desideri, a istigare al consumo e a vivere pure esperienze di natura individuale ed estemporanea non è cultura, e altro. Non demonizziamo, per carità, ma c'è una differenza fra tradizione e pubblicità...».

Lei ha scritto che «peggio della stampa falsa, asservita e bugiarda c'è solo il web, l'anarchia ignorante e incontrollata della rete, il tribunale del popolo» che riesce «a essere perfino peggio dei tribunali di magistrati (e ce ne vuole)». Vuole dirci secondo lei in che rapporto stanno democrazia e verità, specialmente in un'epoca, quella della connessione globale e dei social, che qualcuno ha etichettato come l'era della post-verità e che il sociologo francese Gérald Bronner ha bollato come la stagione della «democrazia dei creduloni»?

«Nel mio ultimo libro Alla luce del Mito mi soffermo sulla verità e i suoi surrogati. E sostengo che la post-verità che dilaga nel web è il trionfo della diceria, della maldicenza, della verità ridotta a percezione, mia impressione, ecc. Ma aggiungo che la post-verità sorge in risposta alle pre-falsità, confezionate dalle fabbriche dell'informazione, che distorcono e manipolano i fatti, e impongono i canoni ipocriti del politicamente corretto. Sicché ci troviamo schiacciati tra la grossolana informazione della rete e la falsa informazione dell'establishment».

Cosa è per lei la verità (se esiste) e che rapporto ha con essa. E come mai le verità filosofiche risultano spesso contrarie al senso comune e difficilmente accessibili ai non addetti ai lavori?

«La verità è il combaciare tra realtà e intelligenza (adaequatio rei et intellectus diceva san Tommaso). Ma ci sono verità attingibili alla nostra intelligenza e altre inaccessibili, più grandi, trascendenti, avvolte nel mistero. La verità è più grande di noi e dunque nessuno ne detiene il monopolio: noi siamo dentro la verità, ma la verità non è nelle nostre mani. Noi possiamo nutrire passione di verità e possiamo cogliere alcuni aspetti della verità, perché la verità ha molti lati; è la poligonia del vero di cui parlava Gioberti. Oggi la verità è preda di due opposte e concomitanti follie: il nichilismo di chi dice che la verità non esiste ma ci sono solo i punti di vista e il fanatismo di chi ritiene di avere il monopolio della verità».

Tra le varie concezioni etiche esistenti nel mondo e nella storia, abbiamo a disposizione un criterio razionale, universalmente valido, per decidere quale sia la migliore?

«Ogni etica discende da una cultura, da una civiltà, da una tradizione religiosa. Ma si può tentare di raggiungere un punto comune di partenza tratto dai comuni e innati bisogni costitutivi dell'uomo: il rispetto per la vita e la dignità umana e per il mondo in cui viviamo, il ripudio di ogni violenza, abuso, prevaricazione, e via dicendo... C'è un comune sentire universale che può essere la premessa elementare all'etica».

Si può sostenere su base razionale, argomentativa, che una civiltà è superiore a un'altra? O che una cultura lo è rispetto a un'altra?

«Ogni civiltà ha tutto il diritto di ritenere al suo interno che i propri principi, le proprie forme di vita, di sviluppo e di cultura siano le più giuste e le più adatte; ma ogni civiltà dovrebbe evitare di imporre all'esterno la sua visione del mondo, stabilendo un primato mondiale e assoluto della sua civiltà. Questo significa amare, non armare, le differenze e le identità, a partire dalla propria. Non relativizzarle e distruggerle al proprio interno ma evitare che prevarichino al loro esterno. Su quella convinzione dovrebbe fondarsi anche il dialogo tra religioni».

Non ritiene che la censura strisciante che ha connotato i decenni in cui la cultura dominante è stata appannaggio della sinistra (e che forse perdura) è dipesa principalmente dal fatto che il pensiero di derivazione marxista si fonda sulla pretesa di possedere la verità assoluta, e che dunque sia congenitamente intollerante, al punto da ritenere la tolleranza addirittura un disvalore, malgrado i proclami di un certo orientamento progressista che ama riempirsi la bocca di parole come pluralismo, multiculturalismo, accoglienza, rispetto delle minoranze?

«Certo, si riteneva e ancora si ritiene nei suoi eredi che essi siano i depositari della verità della storia, di una moralità superiore, di una forma di razzismo etico che diventa antropologico. A questa pretesa superiorità e certezza di incarnare il cammino della storia si aggiunge anche il dispositivo letale che è alle origini del marxismo: l'abolizione della realtà, ossia la convinzione che nel nome di un mondo migliore e di un'umanità futura si debba sacrificare il mondo presente, la natura e l'umanità vivente con le sue imperfezioni».

Il filosofo francese Alain De Benoist già una ventina di anni fa scriveva «che le nozioni di sinistra e di destra sono, se non addirittura obsolete, in ogni caso polisemiche. Fino al punto che se uno dice oggi: Sono di destra, oppure di sinistra, non sappiamo ancora nulla sulle sue concrete opinioni». Lei è d'accordo con questa affermazione? Espressioni come destra e sinistra che significato hanno oggi (se ce l'hanno), non solo in Italia?

«Le due categorie si sono esaurite con il Novecento, hanno tuttavia un residuo senso se vengono liberate dalle contingenze e diventano una la cultura della continuità, della tradizione, del senso del limite e dei confini e l'altra la cultura dell'emancipazione e della mutazione, dello sconfinamento. Oggi la destra si sta separando dal liberismo economico in cui fu ridotta a fine novecento e sta rappresentando il primato delle sovranità popolari e nazionali, politiche e sociali sul mercato globale; e la sinistra sta perdendo i tratti popolari di una forza incentrata sulla difesa del lavoro e dei popoli per assumere il ruolo di forza che promuove ogni forma di sconfinamento: dei confini, dei popoli, dei sessi».

È opinione abbastanza comune che in ciascuno di noi ci sia una componente di sinistra e una di destra, ovviamente in percentuali variabili a seconda dell'individuo. Che cosa c'è in lei di sinistra e che cosa di destra?

«Certo, destra e sinistra non sono tare genetiche, come vorrebbe farci credere un versante sinistro in ogni senso della neurobiologia. L'inquietudine, l'amore per la libertà, l'insofferenza per la routine, il mancinismo fanno parte di me: discendono da una componente congenita di sinistra, dal mio segno zodiacale, o da che altro? Non saprei dirlo».

Non ritiene che la società aperta, proprio per la sua vocazione ad accogliere tutte le idee e gli ideali in libera competizione tra loro, contenga il germe dalla propria autodistruzione, dal momento che certe ideologie (vedi il marxismo, ma non solo) sono nate per affermarsi in modo esclusivo a scapito di tutte le altre?

«Preferisco parlare di comunità aperta, nel senso che bisogna prima riconoscere e consolidare una coesione sociale interna e poi dialogare sulla frontiera con altri mondi e altre comunità. Altrimenti la società aperta è puro caos, totale intercambiabilità di luoghi e poi di popoli, fine di ogni legame e di ogni specificità. D'altra parte lo stesso fautore della società aperta, Popper, riteneva che la società fosse un residuo platonico, non esiste, esistono solo gli individui... Da lì poi nasce per contrappasso la voglia di tribù, cioè di società chiuse e ostili, clan, sette autoreferenziali».

In cosa consiste la rivoluzione conservatrice da lei auspicata?

«Per dirla in breve, è una visione del mondo fondata sulla necessità di cambiare gli assetti e salvare i principi, ossia produrre e governare cambiamenti, riforme, svolte radicali, sperimentazioni e forme di sviluppo e insieme garantire, come compensazione, solide continuità, passioni d'identità, amore per la tradizione e per la realtà, amor fati».

Che cos'è il potere e come si rapporta all'individuo?

«Il potere è il luogo in cui si decide tenendo conto di tre fattori essenziali: l'esperienza, la competenza e la maggioranza, ovvero quel che insegna la tradizione, quel che dicono gli esperti e quel che vuole la maggioranza di un popolo. Il potere è necessario, è piramidale, ha bisogno di un capo, di un'aristocrazia, di una gerarchia. Non esiste l'autogoverno delle masse, la democrazia presa alla lettera è una presa per i fondelli... i pessimi governi sono i governi di pochi nell'interesse dei pochi, i buoni governi sono i governi di pochi nell'interesse dei molti...».

Qual è il ruolo della filosofia oggi?

«Marginale, autolesionistico, celebra la propria fine. E invece resta centrale perché l'umanità ha bisogno di visioni del mondo e della vita, e poi per capovolgere Marx, finora abbiamo cambiato il mondo, ora si tratta di capirlo. E la filosofia serve, dovrebbe servire, a questo».

Globalizzazione, Oriente e Occidente, Cristianesimo e Islam, populismi, fanatismi, terrorismo: come vede il futuro dell'Occidente nella prospettiva che queste parole spalancano?

«Non ritengo che si debba più parlare partendo dall'Occidente: oggi i parametri sono o più grandi o più stretti, si chiamano comunità, patria, civiltà - europea e mediterranea nel nostro caso nord e sud del mondo, e tanto altro.

Sarà che provengo dall'estremo oriente italiano, la Puglia, ma non penso che l'Occidente sia la mia patria, ma nell'ordine: la mia città natale, la Puglia, Roma, l'Italia, il Mediterraneo, l'Europa... A partire dalla sua triplice radice, greca, romana e cristiana».

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