Roma. Impugna l'ascia, Steve McQueen, regista premio Oscar (12 anni schiavo) omonimo della spericolata star idolo di Vasco Rossi. E alla Festa del Cinema di Roma vengono giù i pregiudizi, mentre, al secondo giorno, l'autore britannico con base ad Amsterdam presenta la sua serie televisiva Small Axe, cinque film a sfondo antirazzista, da novembre su Amazon Prime. Un racconto viscerale sui ribelli anti-colonialisti che, nella Londra tra i primi anni Sessanta e i tardi Settanta del secolo scorso, infiammarono il West End con il loro attivismo contro le repressioni della polizia, accusata di razzismo nei confronti della comunità caraibica.
«È una storia importante e ignorata dal mondo anglosassone. Ci ho messo undici anni per partorirla», spiega McQueen, sul red carpet con la moglie Bianca Stigter e i loro figli Dexter e Alex, per poi ricevere, dalle mani del direttore artistico Antonio Monda, il Premio alla carriera.
Già in rassegna ai Festival di Londra e di New York, la serie targata Bbc, anche selezionata dal festival di Cannes, «cerca di colmare il gap tra il 1968 e metà anni Settanta, in un Paese, l'Inghilterra, che ha perso due generazioni di artisti a causa del razzismo», dice l'autore, che prende il titolo della sua opera da una canzone di Bob Marley, tratta dall'album Burnin' (1973), dove si parla di una piccola ascia («small Axe») che taglia i grandi alberi del pregiudizio razziale. A sua volta, la canzone prende spunto da un proverbio africano: «Se tu sei il grande albero, noi siamo la piccola ascia».
Sbarcato in Inghilterra nel 1948, a bordo della Empire Windrush, il popolo caraibico basato a Londra viene descritto da McQueen tra orgoglio e resilienza. Ieri si sono visti tre episodi della serie, che capita a fagiolo mentre il movimento Black Lives Matter fa parlare di sé: non a caso, la serie Small Axe è dedicata alla memoria di George Floyd, vittima della polizia americana. Nell'episodio Red, White and Blue, ispirato alla vera storia di Leroy Logan, ufficiale di polizia di colore che si scontra col razzismo dei poliziotti londinesi, si vedono canti, balli e lacrime dei non-bianchi. Magnificamente interpretato da John Boyega (Star Wars), l'episodio sfodera la visionarietà di McQueen e le eleganti architetture estetiche, che l'hanno reso caro alla Biennale d'arte di Venezia.
Nell'episodio Mangrove si racconta dell'omonimo ristorante a Notting Hill, dove i dissidenti caraibici si davano pacifico convegno, a metà degli anni Sessanta, per poi venir incriminati di sovversivismo ed essere assolti. Per McQueen si tratta anche di storia personale: mamma di Trinidad e papà delle Grenadine, egli conosce da vicino certa difficoltà. Tra l'altro, suo padre era amico di uno dei «Mangrovia Nine», i nove dissidenti riuniti a Notting Hill, mentre la figura di sua zia rivive nella protagonista dell'episodio Lovers Rock. «Nel mio film circola universalità. Mio zio teneva aperta la porta di casa a mia zia, che stava fuori tutta la notte, di festa in festa», scandisce McQueen, omaggiando le proprie radici.
E a proposito dei nuovi standard adottati dall'Academy, in senso inclusivista, l'autore non si dichiara soddisfatto. «Gli Oscar cercano di dare il meglio. Ma io sono più interessato alle persone che vengono chiamate a lavorare nell'industria del cinema. Quando vedrò che, alla base della montagna, c'è gente che la scala per salire in cima, mi dichiarerò soddisfatto.
C'è voluto l'episodio di George Floyd e una pandemia, per farci scoprire che il razzismo esiste ancora. Non sono fautore della violenza, ma a un certo punto scatta la frustrazione», riflette il regista di Shame e Hunger.
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