Le domande - benché parliamo di 13 anni fa... - le ha sempre fatte lui a me entrambe le volte che mi sono presentato al suo cospetto al Dipartimento di Studi Umanistici dell'Università del Piemonte Orientale per sostenere i due esami di Storia Medievale (e fu pure clemente: presi rispettivamente 29 e 30). Questa volta, invece, le domande gliele ho poste io. Con una differenza: rispetto ad allora, oggi Alessandro Barbero, 61enne torinese professore ordinario di Storia Medievale a Vercelli, ateneo in cui insegna dal 1998, e volto di fiducia di diverse trasmissioni Rai, è letteralmente una star del web: le sue lezioni postate su YouTube sono seguite da migliaia di giovani e giovanissimi. Barbero è, insomma, il volto pop della storia, disciplina che considera follemente divertente e con la quale, appunto, si diverte. Come nel suo nuovo libro, La voglia dei cazzi (Effedì, pagg. 140, euro 15), un'edizione di alcune sboccatissime novelle francesi del Duecento, i fabliaux, a sfondo sessuale ed erotico, un repertorio letterario che accende nuove luci sul Medioevo.
Professore, lei ha un successo esorbitante...
«Sì, e mi ha anche cambiato la vita...».
Quando ha iniziato ad accorgersene?
«Me ne sono accorto quando un ragazzo che passava in bicicletta si fermava a salutarmi, o quando un altro mi correva dietro col telefonino in mano chiedendomi un selfie».
Veniamo al suo libro e partiamo dal titolo: è forte, d'impatto, ma si tratta di una traduzione letterale, giusto?
«Sì, anche se l'originale gioca su un equivoco. Li sohaiz desvez si potrebbe tradurre Il desiderio pazzo (non nel senso di La voglia matta ma nel senso di desiderio assurdo, espresso da uno fuori di testa). Ma se invece scriviamo Li sohaiz des vez ecco che viene fuori La voglia dei cazzi».
Cos'è un fabliaux?
«È l'esatto equivalente delle nostre novelle, che cominciano nel Duecento col Novellino e avranno tanta fortuna fino al Cinquecento: un racconto breve, tendenzialmente comico, incentrato su una situazione scabrosa, su un'avventura insolita, su un motto di spirito o una beffa. Solo che in Italia si scrivevano novelle in prosa mentre il fabliaux, che fiorisce in Francia nel XIII secolo e inizio XIV, era in versi baciati».
Se parliamo di osceno, lo troviamo anche nel Decameron...
«Sì, ma in termini diversi. Certe novelle di Boccaccio descrivono graficamente situazioni estremamente oscene, con la stessa libertà e gusto dei fabliaux: quella era una società dove non c'era nessun tabù sul fatto di parlare di sesso. Però i fabliaux violano consapevolmente un tabù che invece c'era, quello delle parole oscene, che almeno in teoria si usavano solo fra uomini e non davanti alle signore; invece Boccaccio quel tabù lo rispetta, lui usa solo metafore (il piuolo col quale egli piantava gli uomini, San Cresci in Valcava)».
La letteratura del Duecento non aveva dunque paura delle parolacce e del sesso: quando inizia la censura?
«Premesso che, come dicevo, nella società certi tabù per quanto riguarda le parolacce esistevano, tanto che gli intellettuali ne discutevano (nel Roman de la Rose, autentico bestseller dell'epoca, c'è tutta una discussione sul fatto che se le reliquie si chiamassero coglioni, e i coglioni si chiamassero reliquie, la parola reliquie ci farebbe orrore mentre tutti correrebbero a baciare i coglioni...), le situazioni oscene e le storielle spinte cominciano a essere considerate di cattivo gusto nel Cinquecento: complice il moralismo della Controriforma, ma anche quello di una società intellettuale che si crede raffinatissima e disprezza quella che considera la volgarità medievale. E così cominciano a uscire le prime edizioni purgate delle grandi raccolte di novelle medievali, compreso il Decameron».
Torniamo al tema del suo libro. Dunque il Medioevo non fu oscurantista, sessuofobo e una società di repressi?
«Ma quando mai? C'è un manuale per confessori in cui l'autore si lamenta delle enormità, dice, che si vengono a sapere in confessionale, e quando si cerca di insegnare ai fedeli che certe cose non devono farle, nessuno sta a sentire, perché la gente dice: io faccio come voglio. Anche il concubinato e l'omosessualità erano molto più comuni e tacitamente tollerati di quanto non saranno in età moderna. Dopodiché i monaci, loro sì, erano spesso sessuofobi e repressi, avendo fatto voto di castità, e siccome i monaci nel Medioevo erano una delle élites più colte e più capaci di esprimersi, la loro voce si sente forte, e a volte rischiamo di credere che la società medievale fosse ricalcata sul loro modello. Niente di più falso».
Lei ha citato gli uomini di Chiesa: le figure della società su cui scherzare erano proprio quelle dei preti e dei vescovi. Perché?
«Si scherzava su di loro perché tutti sapevano benissimo che facevano sesso come e più degli altri (di più, perché in media erano più ricchi e più beneducati, e alle donne piacevano...), ma che in teoria non avrebbero dovuto, dato che almeno sulla carta la grande riforma ecclesiastica dei secoli XI e XII aveva stabilito il celibato. Che in realtà comincerà a essere imposto sul serio solo con la Controriforma: nel Medioevo tutti sapevano che il prete viveva con la pretessa, e chiudevano un occhio, compreso il vescovo».
E a livello dottrinale, quale era la posizione della Chiesa? Anche il diritto canonico si occupava di certi temi?
«Sì, perché la Chiesa pensava di avere il dovere di insegnare ai cristiani come bisogna vivere, cosa si può fare e cosa no; e perciò molti teologi e canonisti si ponevano anche il problema di cosa è lecito fare a letto, delle posizioni, della sodomia, del piacere maschile e femminile. Con posizioni a volte molto sofisticate, sia chiaro: ci sono teologi che spiegano come si può fare per garantire il piacere alla donna, che ha diritto ad averlo, senza violare nessuna regola. Comunque in questo campo, come in tutti gli altri, un conto era l'insegnamento della Chiesa, un altro conto ciò che accadeva davvero».
Lei scrive al termine dell'introduzione: «La scommessa è di fingere che nell'epoca
in cui viviamo né le parole, né le cose facciano più paura, nemmeno nei titoli. Ma sarà poi davvero così?». Le giro la domanda: è così?«Io faccio tuttora fatica a pronunciare in pubblico il titolo del mio libro!».
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