Da anni Franco Lo Piparo, linguista e filosofo del linguaggio, si occupa di una pagina tanto nota quanto opaca della storia d'Italia, il processo e la detenzione di Antonio Gramsci ordinata dal Tribunale Speciale fascista. I precedenti saggi, ben documentati e appassionanti come una detective story, si spingevano fino a sospettare che Togliatti avesse ostacolato i tentativi di estrarre dal carcere il fondatore del Partito Comunista Italiano. Qualche giorno fa, in un articolo uscito sul Corriere della sera, è toccato a Mussolini perdere in parte il ruolo di feroce aguzzino. Nello stesso articolo, tenendo conto del fatto che Gramsci, prima di essere rilasciato, fu curato in clinica dal 1933 al 1937, e che dodici dei trentatré «quaderni» non presentano timbro carcerario, Lo Piparo avanza la proposta, che a molti sembrerà iconoclasta, di mutare il titolo del capolavoro gramsciano in Quaderni del carcere e delle cliniche.
Professor Lo Piparo, lei sostiene che come detenuto Gramsci ricevette un trattamento di favore e che probabilmente ciò accadde per volontà di Mussolini. Da cosa traspare questo «trattamento di favore» e perché il Duce avrebbe deciso così?
«I fatti sono tanti. Ne cito uno che non compare mai nelle trattazioni. Il direttore del carcere di Turi a volte proibisce a Gramsci di leggere alcuni libri. Gramsci scrive direttamente a Sua Eccellenza Benito Mussolini, Capo del Governo e l'autorizzazione alla lettura arriva. Tra i libri richiesti si trovano le opere complete di Marx ed Engels, opere varie di Trotsky, l'edizione francese delle lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Non pare proprio che Mussolini abbia voluto impedire al cervello di Gramsci di funzionare. So che mi attirerò un po' di critiche con quello che sto dicendo: Mussolini con quel comportamento dà l'impressione di stare oleando e alimentando quel cervello».
Il suo articolo sul Corriere non sembra legato ad anniversari o altre celebrazioni gramsciane, a meno che non si tratti della mostra Gramsci. I quaderni del carcere ed echi in Guttuso da poco aperta alle Gallerie d'Italia, a Milano. milanese sui Quaderni). Cosa l'ha spinta a pubblicarlo proprio adesso?
«Il problema del fascismo, della sua eredità, delle sue specificità tutte italiane rispetto agli altri due regimi totalitari (comunismo sovietico e nazismo) è sempre attuale indipendentemente dalle ricorrenze».
Sono apparsi nuovi documenti che suffragano la tesi di una particolare «mitezza» del carcere di Gramsci o non si tratta piuttosto di attirare l'attenzione su una serie di fatti che sono da sempre sotto gli occhi di tutti, ma che si preferisce non vedere perché formano un quadro che spiace a qualcuno?
«Gli elementi fondamentali si conoscono da tempo. Le lettere a Mussolini ad esempio sono state pubblicate due decenni fa e però è come se ci fossero resistenze a leggerle a voce alta e farne parte delle narrazioni su Gramsci. E comunque mettere insieme tutti i trattamenti di favore di cui il prigioniero politico ha goduto, ha fatto un certo effetto anche su di me. Capire il senso di tutto questo non è semplice e facile. Sospetto che in questa storia ci sia qualcosa che non conosciamo ancora bene».
Nella prefazione a La barbarie dal volto umano di Bernard-Henri Lévy, Sciascia con molta ironia scriveva «La destra non sappia ciò che fa la sinistra, e soprattutto che non lo sappia dalla sinistra». Lei è stato molto vicino alla sinistra, non teme che le sue tesi si prestino a un uso strumentale?
«Le strumentalizzazioni sono inevitabili e bisogna metterle nel conto. Sono interessato alla sostanza della questione. Gramsci è l'unico pensatore di area comunista della prima metà del Novecento che ancora ha qualcosa da dirci per capire la complessità del mondo contemporaneo. Purtroppo è diventato l'autore-grimaldello di riferimento degli orfani del comunismo. Col risultato che la sinistra riformista che invece potrebbe e dovrebbe trarre insegnamenti dai Quaderni ha imbarazzo pure a citarlo. È una situazione paradossale ma è così».
«Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Questa frase, che secondo Togliatti fu pronunciata dal giudice che condannò Gramsci, non trova riscontro nelle carte processuali ed è probabilmente un'invenzione del Migliore. È stato tentato di dare una lettura psicoanalitica di questa «menzogna»? Era Togliatti, in realtà, che voleva impedire al cervello di Gramsci di funzionare? E se sì, quali erano le sue ragioni?
«La lettura psicoanalitica che lei mi prospetta mi pare infondata. I rapporti tra Togliatti e Gramsci attraversano momenti diversi e non sono facilmente riconducibili a una lettura agiografica e unitaria. Sono stati entrambi interventisti nella Prima Guerra: erano più vicini alla posizione di Mussolini che a quella neutralista del partito socialista. Togliatti addirittura si arruolò come volontario. Collaborarono fino alla metà degli anni Venti. Nel '26 ruppero in maniera definitiva sulla valutazione dei metodi di governo di Stalin. In carcere Gramsci ritenne che Togliatti fosse il mandante di alcune iniziative che gli resero più difficile l'uscita dal carcere tanto da chiamarlo compagno ex amico. E però, tornato nel dopoguerra in Italia, Togliatti è molto abile a fare dei Quaderni il manuale di riferimento della via italiana al socialismo. Slogan che, tradotto in volgare, significava: fare una politica riformista e socialdemocratica dichiarandosi di fede comunista. E questo perché i Quaderni spiegano le ragioni storiche e teoriche del riformismo e non della rivoluzione».
Lei ventila l'ipotesi che sia stato Mussolini a consentire ai Quaderni di uscire dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci morì, senza che cadessero nelle maglie della censura. Perché Mussolini lo avrebbe consentito?
«I quaderni dalle cliniche escono comodamente poco per volta prima della morte di Gramsci. Le Note della Questura al Ministero insistono sul fatto che Tania va a fare visita al cognato portando con sé una grande borsa. Nessuno ordina alla polizia di controllare il contenuto della borsa. Mussolini aveva tutti gli strumenti per sequestrare i quaderni. Invece non l'ha fatto. Perché? Confesso che al momento non so dare una risposta convincente. Inoltre sappiamo che Mussolini era un ammiratore del cervello di Gramsci. Il primo dicembre 1921 alla Camera ne parla in questi termini: Un sardo gobbo e professore di economia e filosofia, di un cervello indubbiamente potente».
Lei scrive: «Dalla morte di Gramsci sono passati 79 anni. Il muro di Berlino è stato abbattuto 27 anni fa. I tempi sono più che maturi per esplorare senza pregiudizi ideologici un capitolo fondamentale della storia d'Italia». C'è in vista un suo saggio sui rapporti fra Gramsci e Mussolini?
«Gramsci serve a una sinistra riformista, che sappia muoversi nella complessità del mondo contemporaneo e che sappia coniugare impegno politico e cultura. Dei libri preferisco parlare solo quando sono già stati scritti».
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