Con l'uscita di scena di Manoel de Oliveira, all'età di 106 anni, la settima arte perde il suo ultimo patriarca. Con lui si chiude l'epoca degli eroi e prende avvio quella degli uomini. Si passa dall'età degli umanisti della celluloide a quella dei tecnici della digitalizzazione delle immagini.
Il cinema europeo perde un padre fondatore e può così navigare tranquillo nel mare della globalizzazione. Possibile che in un solo uomo, in un solo artista, confluiscano così tanti percorsi, e abbiano termine così tanti attraversamenti? È possibile. Forse al grande pubblico il nome di Manoel de Oliveira, portoghese nato a Cedofeite, vicino Porto, nato nel 1908, dice poco. I suoi film non hanno mai richiamato grandi folle. Perlopiù sono circuitati in festival o in sale d'essai. Eppure un particolare dovrebbe bastare per capire la straordinaria importanza di questo regista: quando lui ebbe tra le mani la macchina da presa per la prima volta, il cinema ancora non parlava. Era infatti il 1927. L'era del muto stava appunto scomparendo, poiché negli Stati Uniti era stato realizzato il primo film parlato, Il cantante di jazz , di Alan Crosland. Nel vecchio mondo era ancora un'invenzione da venire, e il diciannovenne Manoel aveva già deciso che l'universo della celluloide sarebbe stato il suo universo.
Figlio di un industriale, aveva studiato nella vicina Galizia, presso i gesuiti spagnoli. Amava la bella vita, lo sport, il ballo, le auto veloci. Si getta a capofitto nell'arte giovane, veloce, dinamica, idolatrata dal futurista Marinetti e dalle avanguardie europee. Però ci mette molto a trovare la via giusta. Nel 1942, mentre Luchino Visconti sta girando sulle rive ferraresi del Po il manifesto del neorealismo Ossessione , Oliveira realizza il suo primo lungometraggio, Aniki-Bobo , girato in strada, con bambini presi dalla strada, con mezzi poveri tanto quanto la povertà che sta filmando. È, né più né meno, ciò che stanno predicando sulle pagine della rivista fascista Cinema : gettarsi per strada e catturare il reale.
Ma la povertà non la vuole vedere nessuno. Il film è un fallimento, che blocca per lungo tempo la carriera di Oliveira. Negli anni Sessanta del secolo passato il cinema portoghese vive una stagione di notevole vitalità. Manoel però è troppo autonomo per finire incasellato in una scuola, in una tendenza, in un movimento. Riprende una sacra rappresentazione ( Atto di primavera , 1963), gira un sulfureo cortometraggio con un finale degno di Luis Buñuel ( La caccia , 1964), continua a inseguire progetti, ma deve attendere i primi anni Ottanta per la consacrazione internazionale.
Il film di svolta è Francisca (l98l). A 73 anni scopre in se stesso la forza di un ragazzino e non smette di girare film, uno dietro l'altro: dal fluviale La scarpetta di raso (1985, adattamento del testo di Claudel) al complesso Il mio caso (1986, metà Giobbe, metà Samuel Beckett). E poi I cannibali (1988), La divina commedia (1991), La valle del peccato (1993), I misteri del convento (1996), Party (1996), e tanto altro. Nel 2006 con Bella sempre a quasi quarant'anni di distanza rende omaggio al Buñuel di Bella di giorno (Catherine Deneuve che nel film di Buñuel era una borghese che si prostituiva per noia, non accettò di girare, sostituita da Bulle Ogier). In tutto girò 50 film (vincendo due Leoni d'Oro alla carriera e la Palma d'oro alla carriera). L'ultimo, Lo strano caso di Angelica , fu presentato nel 2010 a Cannes.
Non c'è un caso così eclatante di regista che in età avanzata lavora per un trentennio in maniera impressionante, mescolando teatro e letteratura, cronaca e storia, realtà e fantasia. Venendo a contatto personale con Manoel de Oliveira si rimaneva sbalorditi dalla sua vitalità. Se i suoi film erano quanto di più intellettuale vi potesse essere, il suo autore era l'opposto. Una volta, vedendo seduto Martin Scorsese accanto al suo tavolo in un ristorante al Lido di Venezia, durante il festival, chiese di poterlo conoscere. Scorsese lo abbracciò e lui, felice come un fanciullino e trotterellante, gli disse a bruciapelo che gli piacevano i suoi film, ma erano troppo americani. A Scorsese si sollevarono un po' gli occhiali dallo stupore. Divertente, scherzoso, gioviale.
Manoel de Oliveira è stato un umanista cristiano, l'ultimo degli umanisti cristiani europei del Novecento.La sua opera deve ancora essere studiata e capita per quello che autenticamente rappresenta: un inno alla vita nel secolo che ha celebrato costantemente e incessantemente la morte.
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