Il nazionalismo italiano? Tanta Roma antica e poca America moderna

Elogi al "muscolare" Teddy Roosevelt e critiche al "pacifista" Wilson. Poi venne il Fascismo...

Il nazionalismo italiano? Tanta Roma antica e poca America moderna

Nel 1904 apparve in italiano, per i tipi della casa editrice Treves che pubblicava molti autori nazionalisti, il volume Vigor di vita. Era una raccolta di scritti e discorsi - l'edizione originale apparsa nel 1900 si intitolava The Strenuous Life - di Theodore Roosevelt, divenuto nel 1901 presidente degli Stati Uniti a seguito dell'assassinio di Willian McKinley. Teddy Roosevelt, all'epoca poco più che quarantenne, si era costruito una immagine vincente: da quel ragazzo esile e malaticcio che era in gioventù si era trasformato con la forza della volontà in un uomo robusto, amante dello sport, della vita all'aria aperta e dell'avventura. La sua carriera politica era stata rapida: governatore di New York e vicepresidente di McKinley.

Il libro e le idee di Roosevelt non passarono inosservate neppure in Italia dove, per usare una celebre espressione dello storico Gioacchino Volpe, spirava un venticello di «vario nazionalismo» e dove certi accenti di esaltazione di una «vita nazionale intensa» e certe suggestioni imperialistiche riscuotevano simpatia. A quell'epoca il nazionalismo italiano non si era ancora raccolto in un partito e, dal punto di vista dottrinario, non aveva ancora assunto una fisionomia precisa: era ancora, in una certo senso, una spugna che accoglieva, pur senza sempre trattenerle, diverse suggestioni. Non a caso, in occasione della trionfale rielezione di Roosevelt nel 1904, il padre spirituale del movimento nazionalista italiano, Enrico Corradini, scrisse un articolo di esaltazione del presidente americano, sostenendo che avrebbe visto volentieri «questo cittadino di New York in mezzo ai grandiosi Romani onesti, austeri e superbi del miglior tempo repubblicano».

Eppure, la sintonia fra il grande Teddy e i nazionalisti italiani era molto meno intensa di quel che apparisse all'epoca. Il tema è approfondito da un ottimo saggio di Federico Robbe: «Vigor di vita». Il nazionalismo italiano e gli Stati Uniti 1898-1923 (Viella, pagg. 268, euro 24) nel quale viene analizzato con finezza critica il rapporto, per molti versi ambiguo e ambivalente, che i nazionalisti italiani ebbero con gli Stati Uniti e anche, per certi versi, con la cultura imperialistica anglosassone. Il parallelismo, talora evocato, tra impero americano e impero romano appariva, a ben vedere, troppo forzato. Se è vero che certi richiami all'«energia» vitale e al militarismo potevano affascinare gli ambienti del nascente nazionalismo italiano, è anche vero che critiche acuminate nei confronti dell'«americanismo» cominciarono presto a farsi sentire.

La prima guerra mondiale fu il banco di prova di questo rapporto equivoco tra cultura e politica nazionalista, da una parte, e Stati Uniti dall'altra parte. E, al tempo stesso, rappresentò anche l'occasione per chiarire i capisaldi della dottrina nazionalista e per verificare se, e fino a che punto, sulla sua definizione avessero avuto peso, ovvero influenza, idee o esempi stranieri. Della stagione interventista i nazionalisti in Italia furono, se non certamente gli unici, i grandi protagonisti: essi, grazie alla mobilitazione di giovani e intellettuali e grazie alla stampa amica, ebbero la possibilità di imprimere all'interventismo una dimensione espansionistica destinata a convivere con la tradizione democratico-irredentista di matrice risorgimentale.

Alla vigilia dello scoppio del conflitto mondiale l'Associazione Nazionalista Italiana aveva ormai precisato la sua visione del mondo e della politica: una visione antisocialista, antidemocratica, antiliberale e antiliberista, autoritaria e decisamente monarchica. Malgrado ciò che è stato scritto da molti studiosi, a cominciare da Benedetto Croce, il movimento nazionalista italiano, a livello teorico, non era affatto debitore di idee provenienti dall'estero. L'Action Française, per esempio, cui spesso è stato fatto richiamo, era troppo legata alla tradizione e alla storia francese per costituire un punto di riferimento preciso. Anche dal mondo anglosassone non potevano giungere modelli né teorici né pratici: lì non c'era mai stato nazionalismo ma, semmai, imperialismo fondato sull'idea di una superiorità del popolo inglese cui sarebbe spettata quella missione civilizzatrice sintetizzata dalle parole di Rudyard Kipling sul «fardello dell'uomo bianco».

Le posizioni ideologiche del presidente americano Woodrow Wilson condensate nei famosi «quattordici punti» contenuti nel discorso pronunciato all'inizio del 1918 non erano, neppure esse, in sintonia con le idee del movimento nazionalista italiano, quali erano andate definendosi attraverso congressi e dibattiti pubblici. Se, per un verso, Wilson citava il «principio di nazionalità» e l'«autodeterminazione dei popoli» per altro verso l'ispirazione democratica, pacifista e universalista delle sue tesi le rendevano indigeribili. Già al momento della sua rielezione alla presidenza, Wilson fu, in Italia, duramente criticato dagli ambienti nazionalisti. Enrico Corradini lo definì un «filosofo dell'idealismo materialista, il rappresentante tipico della civiltà americana che di là dell'Atlantico esala i suoi fiumi umanitari». E proprio alla civiltà americana, materialistica e ancorata al profitto, un altro importante esponente nazionalista, Francesco Coppola (che, in seguito, avrebbe fondato, insieme ad Alfredo Rocco, la rivista Politica, testata ideologica del movimento) contrapponeva la civiltà europea, fiduciosa nella moralità della guerra e nella necessità del sacrificio rigeneratore, e criticava il «pacifismo» wilsoniano.

Poi c'era stato l'intervento degli Stati Uniti in guerra e, grazie a una «interpretazione nazionale» dell'universalismo e alla scoperta di possibili anche se fragili compatibilità tra wilsonismo e nazionalismo, il presidente americano era diventato per la stampa nazionalista un «alleato». Tutto ciò almeno fino a quando Gabriele d'Annunzio contestò i lavori della Conferenza della pace in nome della «vittoria mutilata» e dette il via all'impresa di Fiume. Da quel momento in poi Wilson tornò a essere un nemico. E gli Stati Uniti tornarono a essere visti come il frutto di una civiltà materialistica che trovava la sua ragion d'essere nella ricerca del profitto.

Il volume di Federico Robbe, frutto di una accurata analisi delle fonti, offre in realtà molto più di quanto non dica il titolo. Tratteggia, certo, con finezza interpretativa, l'evolvere delle relazioni tra nazionalismo italiano e Stati Uniti, ma affronta, al di là di certi stereotipi largamente diffusi, la questione dei rapporti di Gabriele d'Annunzio con il movimento nazionalista e, ancora, quelli tra nazionalisti e fascisti.

Il volume si conclude con la fusione, nel 1923, tra l'Associazione Nazionalista Italiana e il Partito Nazionale Fascista, cui si giunse per comporre il dissidio che opponeva le due forze «nazionali» dell'immediato primo dopoguerra: una composizione che, in realtà, significò l'emarginazione del movimento nazionalista e il suo assorbimento all'interno del fascismo. Anche se i termini del dissidio e le differenze continuarono a sussistere.

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