Nel disco «Western Stars» archi morriconiani e ballate molto lente

Antonio Lodetti

Il singolo There Goes My Miracle, con l'orchestra a vele spiegate e la voce del Boss potente e decisa in una ballatona pop-oriented dà l'idea di come sia il nuovo album - a cinque anni dall'ultima uscita - di Bruce Springsteen, Western Stars.

Non c'è spazio qui per gli orfani della E-Street Band e per le cavalcate elettriche, ma per un pugno di ballate intense e ricche di umori. Springsteen torna a raccontarsi e a raccontare la sua America con testi ora intimisti ora politici ma non di protesta. È il disco di un artista completo e maturo, e non a caso Springsteen «narra» delle piccole-grandi storie di vita. L'aveva detto recentemente: «Volevo essere non solo un cantautore, ma anche un commentatore, un osservatore che potesse entrare nella realtà delle cose». E dall'ottobre 2017 al dicembre dell'anno successivo aveva tenuto ben 236 concerti a Broadway cantando da solo e svelando i suoi pensieri ad un pubblico entusiasta (dell'esperienza è uscito l'anno scorso un album e uno speciale su Netflix).

Dunque come la mettiamo con Western Stars, inciso nel suo studio del New Jersey (con alcuni brnani registrati in California e a New York) e co-prodotto con Ron Aniello? È l'album della maturità e del recupero delle radici; i testi sono al tempo stesso semplici ed epici e raccontano la quotidianità a ritmo di folk (ma è riduttivo), anzi a ritmo di ballate sostenute da archi possenti che ricordano ora Morricone ora i mitici Wall of Sound di Phil Spector. «Questo lavoro - spiega il rocker - è un ritorno alle mie registrazioni da solista con le canzoni ispirate a dei personaggi e con arrangiamenti orchestrali cinematici»:

Cinematici, ecco la parola...Sono canzoni che si trasformano in visioni come l'iniziale Hitch Hikin', che tratta il mai passato di moda tema dell'autostop su un lento tempo di country e un tappeto orchestrale quasi virulento. La usa l'orchestra il Boss, e la usa molto, per reiterare i suoni e dare maggior peso alle metafore dei suoi testi. Accanto all'autostoppista c'è il vagabondo (The Wayfarer). Rigurgito di gioventù? Piuttosto segno di profondità d'animo, di riscoperta delle radici stradaiole («Sempre la stessa triste storia, amore e gloria, andando di qua e di là», canta in The Wayfarer). «A 30 anni ero complicato - dice ancora - avevo sempre in mente i legami imperfetti che tengono insieme la società».

Ora questi legami li ha metabolizzati e li esplicita in brani come Tucson Train o nella epica lentezza (aperta da una seducente pedal steel) di Western Stars che parla di Oklahoma, Chiuahua, whiskey bar e John Wayne. Una bellissima foto, con Springsteen seduto vicino ad un deserto, chitarra in mano, introduce i tempi Tex Mex - con tanto di fisarmonica - di Sleepy Joe's Café, un luogo lungo l'autostrada, vicino a San Bernardino, dove camionisti e bikers si incontrano ogni notte, e alle sette la band comincia a suonare e la gente balla per tutta la notte. È l'America di provincia, quell'America che a suo tempo aveva cantato Steinbeck (solo per citarne uno) e di cui Springsteen si riappropria cantandola sulle disillusioni dell'«american dream».

Chasin' WIld Horses è un altro dei piccoli capolavori dell'album, con l'orchestra che ci dà dentro (sembra di vedere le immagini di un film western), l'attacco poderoso della chitarra acustica e un sottofondo di pedal steel e di banjo a dare il colore adatto.

Insomma è uno Springsteen un po' diverso, sempre più sicuro del suo ruolo di «arcangelo Gabriele» del rock moderno, sempre animato da uno spirito battagliero sostenuto dalla complessa maturità degli anni. E anche se l'altro ieri, a Roma, ha annunciato un futuro album con la E-Street Band, dovremo abituarci ad ascoltarlo nel ruolo del menestrello, seppur sempre ruspante.

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