"Non odiare", Alessandro Gassmann in un film sui lasciti dei padri

Figli alle prese con dilemmi morali, fantasmi genitoriali e ridefinizione dei ruoli. Un film la cui bellezza resta sottotraccia, silenziata dall'eccessiva sobrietà narrativa

"Non odiare", Alessandro Gassmann in un film sui lasciti dei padri

"Non odiare", l'opera prima di Mauro Mancini, è l'unico film italiano presentato in concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia.

Un imperativo, quello del titolo, quanto mai attuale in un'epoca in cui la tensione sociale è alle stelle e si affida la propria identità a tifoserie preconfezionate.

Simone Segre (Alessandro Gassmann, tanto più carisma quanto più lavora di sottrazione) è di famiglia ebrea, vive nel nord-est e fa il chirurgo. Sta pagaiando lungo un fiume quando, dall'argine, sente avvenire un incidente automobilistico. Arrivato sul posto, trova un uomo gravemente ferito e ne blocca l'emorragia in attesa dell'ambulanza. Quando però si accorge che lo sconosciuto ha tatuaggi che lo qualificano come un militante neonazista, lo abbandona al suo destino. Scopre poi che si chiamava Minervini e che lascia tre figli soli al mondo. Lacerato dai sensi di colpa, decide di offrire alla primogenita, Marica (Sara Seraiocco), un impiego come colf, cosa che non va giù al figlio di mezzo, Marcello (Luka Zunic), stessa ideologia paterna.

"Non odiare" è un esordio ammirevole, ma il cui pieno valore resta nascosto dal gusto per il vuoto, il non detto e il non mostrato. Per tenersi alla larga da retorica e luoghi comuni, il regista sceglie un tono composto e asciutto che alla lunga suona semplicemente monocorde. Le lunghe pause silenziose, anziché creare uno spazio di meditazione, amplificano il deserto di elementi in cui lo spettatore è lasciato solo. I personaggi hanno una caratterizzazione appena suggerita, forse per mantenere intatta la loro valenza universale, ma la mancanza di sfumature mina il coinvolgimento. "Ho finito il detersivo" e "Gli hanno sparato" (detto reggendo il ferito) non possono essere pronunciate con la stessa anedonia.

Nonostante il film sia a lungo ostaggio di passi lenti, sguardi torvi, facce sbattute e interazione a monosillabi, la profondità è intuibile. Qui ognuno è orfano e con un retaggio ingombrante in eredità. Gli adulti si improvvisano figure genitoriali ma mischiano lacrime e baci, lasciano aperte porte che dovrebbero restare chiuse e hanno una specie d'innocenza incestuosa. Tra questi figli irrisolti c'è chi nel culto della forza cerca solo qualcuno da ammirare, chi individua cose belle anche in una discarica e chi crede nel tentativo di aggiustare ciò che è rotto.

Sono gattini (il riferimento è all'incipit) che restano a galla imparando a nuotare in compromessi che fanno parte del fiume della vita.

Il "Non odiare" del titolo è soprattutto un invito ad addomesticare l'aggressività di certi ricordi e a farne una preziosa compagnia con cui guardare l'orizzonte.

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