Un giorno di fine agosto del 1967, a San Paolo in Brasile, Giuseppe Ungaretti, al termine di un incontro con il pubblico, viene attorniato come di solito da quelli che desiderano complimentarsi con lui e chiedergli un autografo: tra questi, c'è una ragazza dai capelli cotonati, una bella bocca, occhi timidi, che gli porge un fascicoletto di sue poesie. Il poeta sente, stringendole le mani, una vibrazione istantanea che li accomuna. Lui è famoso nel mondo, vedovo, e ha settantotto anni. Lei, Bruna Bianco, di una famiglia originaria delle Langhe, impiegata nella azienda paterna, ne ha ventisei. È l'inizio di una storia di amore folle che durerà circa due anni i cui protagonisti non staranno insieme in Brasile e in Italia che per pochi mesi, e per il resto del tempo, lontani, si scambieranno una serie lunghissima di lettere.
Quelle di lui, le possiamo oggi leggere nel volume a cura di Silvio Ramat, Lettere a Bruna (Mondadori, pagg. 656, euro 21). Ungaretti, che si firma progressivamente il «nonno», il «nonno ringiovanito», «Ungà», «Poppy», sino ad arrivare a un inverosimile «Piccolino», vive l'amore corrisposto da Bruna con una intensità magmatica, delirante, un po' teatrale, un amore che definisce via via incredibile e intrepido, illuminante e assurdo, eccessivo e disperato, impastoiato e sacrilego. Un amore smisurato e «demente», che lo libera dalla più orrenda delle leggi, quella dell'età. Bruna per lui è figlia, sposa, anima, mito. Lui arriva a scrivere che la ama più della poesia, che sarebbe una bestemmia se lei non fosse, in sé, la poesia. Ma il vecchio «Poppy», furente e mitissimo innamorato, non si limita a lusingare Bruna con complimenti iperbolici ai suoi testi, a sommergerla di doni, tra cui profumi preziosi, da Calèche a Hermes, da Guerlain a Madame Rochat, da Femme a Capricci di Nina Ricci, a vezzeggiarla con i più sdolcinati appellativi, sposina, amorino sino a quell'improbabile «trottolina». Il vecchio Poppy non perde di vista l'aspetto carnale dell'amore, e manda e implora ossessivamente baci. Lui bacia occhi, bocca, e va con ardore quasi feticistico dalla punta di ogni dito del piede sino ai capelli, bacia «tutta» Bruna, sino a svenire dall'emozione, mille miliardi di volte, bacia anche dormendo, morde quelle labbra bellissime fortissimamente, le divora, con furia e dolcezza, tenerezza e furore, imprime dietro il collo baci lunghissimi, infiniti, che durano nei secoli, nell'oltretomba.
Il poeta è felice e disperato di esserlo. Sente il contrasto tra l'esuberanza dello spirito e il declino del corpo. Tra la sua età e quella di Bruna. Eppure la poesia è un collante meraviglioso tra loro. Lui è il mentore di Bruna, ma con un garbo così poco cattedratico: consigliandole di andare al mare, le scrive che si impara di più all'aria aperta che sui libri, che la poesia è manifestazione del sacro, del segreto della natura, che pazzia e assolutezza non abbandonano mai i poeti. Ma le insegna anche che la poesia è non solo sentimento: è anche «fatalità» del linguaggio, e che ha bisogno di molto lavoro - sublime paradosso - per acquistare spontaneità. Ungà parla a Bruna della propria quotidianità, dei suoi viaggi e delle accoglienze trionfali che gli riservano nel mondo, ma anche delle sue angustie, ospite in casa del genero, sovraccarico di lavoro, oppresso dai seccatori, colpito da qualche malanno. Le racconta della propria amicizia con Leone Piccioni, Leoncino, che è come un figlio per lui, amico, sostenitore, complice, in un bellissimo rapporto. Le fa un ritratto benevolo e affettuoso di Allen Ginsberg, che incontra a Londra e a Venezia, creatura disarmata e ricchissima di sentimento e non il «porcone» e pornografo che certi dicono, elenca i suoi incontri mondani, Gunter Sachs, Barbara Steele, Ira von Fürstenberg, la contessa Pecci Blunt, soffermandosi sull'episodio sgradevole della signorina che ha dovuto allontanare dal suo tavolo tanto si faceva petulante con giudizi sommari e stupidi.
Mentre manda sempre nuovi e più appassionati baci, mentre vive le schermaglie tipiche degli innamorati, con i dubbi, le piccole ripicche, le ansie appena una lettera tarda ad arrivare, Ungà fa partecipe Bruna delle sue riflessioni sul mondo che lo circonda, sulla massificazione, l'orrendo imprigionamento dell'uomo ridotto a «particellina di macchina», sulle radici greche, etrusche, romane e cristiane dell'Occidente, sulla politica che serve a «sbarcare il lunario», ridotta a misera ambizione. Piange l'assassinio di Bob Kennedy, «un martire che salirà le scale di Iddio», si impensierisce per l'ira della Francia, paralizzata dalle piazze in rivolta. Si esalta di fronte alle prime minigonne e stigmatizza la «contestazione» che vuole fare tabula rasa di tutto. Quindici «passerottini» che contestano la Biennale a Venezia tra migliaia di poliziotti lo spingono a chiedersi come mai la cosiddetta autorità è sempre così tremebonda e stupida. Non mancano i giudizi severissimi: Auden va bastonato, Quasimodo è un mediocre e un impostore, Marcuse un «imbecille seducente». Del Nobel, Ungà parla a Bruna soltanto per dirle che quei quattrini non farebbero male: comprerebbe una casetta a Capri, per loro due.
Scrive che un poeta non può non sognare sino all'ultimo.E infatti lui continua, «il più bel vecchio del mondo», «il più giovane dei giovani», «l'ultimo poeta superstite» imperversa sognando libertà, amore, baci, lettera dopo lettera, anche se il Nobel non arriva.
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