“Old”, più riuscito come riflessione sull’esistenza che come thriller

Ispirato ad una graphic novel francese, il nuovo film di Shyamalan è appesantito da momenti didascalici ma funziona come affondo sul senso del tempo e su ciò che conta nella vita

“Old”, più riuscito come riflessione sull’esistenza che come thriller

Con Old, uscito al cinema questa settimana, il noto regista indiano naturalizzato statunitense, Night M. Shyamalan (celebre il suo esordio, “Il sesto senso”), regala ai propri fan una sorta di thriller esistenziale.

Adattando un fumetto francese, “Sandcastle” di Pierre Oscar Levy e Frederik Peeters, riunisce su una spiaggia tropicale tredici persone e le pone in balia di una situazione “ai confini della realtà”. Forse la durata ideale del racconto sarebbe stata, appunto, quella di uno degli episodi della storica serie così denominata, anziché le due ore del lungometraggio. “Old”, infatti, dal punto di vista cinematografico presenta diverse pecche: lungaggini, dialoghi un po’ didascalici, ripetizioni e sottolineature musicali goffamente enfatiche. Poco importa. Talvolta la volontà di vedere un bel film può cedere il passo a quella di provare un’esperienza che si farà ricordare. Per quanto i due titoli della filmografia di Shyamalan che lo hanno riportato recentemente in auge dopo una carriera altalenante, “Split” e “Glass”, siano infatti cinematograficamente superiori a questa nuova opera, va ammesso che la visione di “Old” resta addosso più a lungo di quella dei suddetti, in virtù del “fastidio fertile” che sa generare.

Procediamo con ordine. La storia è ambientata in un paradisiaco quanto esotico resort, da qualche parte ai Caraibi. Prisca (Vicky Krieps) e il marito Guy (Gael García Bernal) approdano qui in vacanza con i due figli, Maddox e Trent. I bambini sono all’oscuro del fatto che i genitori vogliano separarsi e che quei giorni saranno dedicati alla costruzione di ricordi spensierati prima della brutta notizia. Assieme ad altre persone, la famigliola viene condotta a visitare una baia esclusiva, circondata da scogliere impenetrabili. L’autista del pulmino (Shyamalan stavolta si ritaglia un piccolo ruolo anziché il solito cammeo) tornerà a prenderli a fine giornata. I nostri, però, si accorgono presto della mancata copertura di segnale telefonico e della presenza di un cadavere. Già profondamente turbati, iniziano ad assistere agli effetti che quel luogo ha su di loro. I bambini crescono a vista d’occhio, gli adulti iniziano ad invecchiare alla stessa velocità. Su quella spiaggia il tempo scorre in maniera diversa, al punto che una sola giornata potrà inghiottirsi il resto della loro vita. I personaggi cominciano a reagire in maniera scomposta di fronte a una situazione che, come ogni emergenza, va ad amplificare nevrosi, conflitti e differenze.

Schiavi del tempo, in un microcosmo invalicabile. In questo senso, ogni essere umano si trova su quella stessa spiaggia.

"Old" è un anomalo coming of age dall’accelerazione iperbolica, in cui vedere specchiate paure universali legate all'inesorabilità del decadimento fisico e della morte. Il regista è un demiurgo che dall’alto della scogliera osserva una culla che sarà presto una tomba e su cui incombe una madre natura che non permette scampo. Gli adulti hanno da un lato i rimpianti per ciò che non è stato e che avrebbe potuto essere, dall’altro rimorsi per aver imboccato strade che non gli somigliavano. I bambini invecchiati, invece, sono schiacciati da ricordi mai nati.

Il film acquista valore una volta decodificato il motivo per cui immalinconisce e turba, ossia lo sbattere in faccia qualcosa che sappiamo ma che siamo impegnati a dimenticare quotidianamente: la nostra caducità. Verrà il giorno in cui la vita ci passerà davvero tutta innanzi, come fosse durata una manciata di ore. Sarà allora che, come certe figure nel film, alcuni si pentiranno di aver investito in superficialità sacrificando sentimenti veri, altri di aver sprecato energie in contrasti che hanno poi valutato e ridimensionato da una prospettiva più saggia.

“Old”, grazie a un twist ending (marchio di fabbrica del regista) si conclude inquadrando tutto in una compagine in grado di porre sulla graticola le coscienze, ponendo questioni tanto grandi quanto attuali e divisorie.

Anche senza tale finale, la pellicola aveva già espresso il suo potenziale, sottintendendo almeno un paio di verità esistenziali scomode e incontrovertibili: la prima è che mancare il senso della vita sia il peggior rischio in cui si possa incorrere vivendo, la seconda che la salvezza risieda nel tenere desto il proprio bambino interiore, coccolandolo anche quando parrebbe l’ultima cosa da fare.

Si esce dalla sala consapevoli (una volta di più) di essere brevemente sospesi tra un “memento mori” e un “carpe diem”, lungo un tragitto la cui bellezza è tutta nei legami affettivi.

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