Donna Gigliotti, capo-produttrice degli Oscar numero 91 ed ex-assistente di Martin Scorsese, venerdì si fregava le mani a Los Angeles: Serena Williams aveva detto sì. La diva del tennis sarebbe apparsa in uno spot pubblicitario, che doveva interrompere la pellicola A Star is born nel corso della cerimonia. Con un traino del genere, soldi a tempesta per lo spazio pubblicitario. Poi ha squillato il telefono: in linea, l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences. Dopo la lettera aperta dei pezzi da novanta di Hollywood Scorsese, De Niro, Spike Lee, Tarantino e altri ancora, indignati per l'intromissione degli spot durante le premiazioni -, i capoccioni dello star system hanno deciso di lasciar perdere le interruzioni pubblicitarie e l'accorciamento di un'ora. È la Settima Arte, mica pizza&fichi. Non bisogna abbandonare le tradizioni, in nome del Dio Dollaro, tuonavano gli artisti. Quattro ore erano e quattro ore saranno, dunque, trasmesse anche in tv. Senza break obbligati di pannolini e cosmetici.
È dal 1987 che l'Academy prova a comprimere i tempi della liturgia degli Oscar, per proteggere i soldini tv degli incassi pubblicitari. Dopo tre ore di film e paillettes, l'East Coast se ne va a letto e gli spettatori calano. Quelli della West Coast, invece, si mettono in piedi e, comunque, tre ore di Hollywood che si guarda l'ombelico hanno valore di soglia. Come dimostrò, l'anno scorso, il calo dei telespettatori: 26,5 milioni, 20% in meno dell'annata precedente.
E stavolta l'organizzazione degli Oscar pare proprio una maionese impazzita. Si parlava d'introdurre una categoria per i film «popolari», ma dopo vibrate proteste dei membri dell'Accademia, non se n'è fatto nulla. E l'eterno duello Commercio vs. Arte continua. Dawn Hudson, capo esecutivo dell'Academy, in una mail ha scritto che «si continuerà a discutere di come si possono evolvere gli Oscar, per riflettere la natura globale, in crescita, dell'industria cinematografica e della nostra comunità». In ogni caso, gli ultimi mesi di tormento insegnano una cosa: la gente segue gli Oscar con passione autentica. Arrivare al 24, data della cerimonia, significa però che il tappeto rosso sta facendo vedere sorci verdi agli organizzatori. E il buongiorno s'era visto dal mattino, con il passo indietro del presentatore designato Kevin Hart, i cui tweet omofobi, ancorché preistorici e rinnegati, avevano urtato le sensibilità della comunità LGBQT americana.
Quanto sembra lontana, superata dai maldipancia attuali, l'epoca del #MeToo, col presentatore Jimmy Kimmel che, l'anno scorso, scodellava 18 minuti di monologo sul movimento e su Trump. Ora, bisogna correre ai ripari. Puntando su un grande tema: i film ci uniscono tutti. Chi vuole il glamour, chi il popcorn e chi l'Arte. Ma niente statuette durante gli stacchi pubblicitari.
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