Tra i luoghi sacri d'Italia c'è Piazza dei Signori a Vicenza, che è anche una delle Piazze più firmate d'Italia, luogo di poesia e di memorie lontane, dei miei primi anni di Ispettore storico dell'arte della soprintendenza del Veneto. Si affollano i ricordi delle passeggiate in quella nobilissima piazza, senza il turismo incontenibile di Venezia, con Neri Pozza, Renato Cevese, Fernando Bandini, Giorgio Bellavitis. Poco lontano ci aspettava nella sua dotta libreria in Contrà do Rode, Virgilio Scapin, scrittore segreto, attore versatile e carico di umori locali (gli stessi che lo fecero essere, fuori da ogni accademia, Gran Priore della Confraternita del baccalà alla vicentina). E poi altri amici perduti, in quelle strade che tutte portavano all'ariosa Piazza dei Signori: Angelo Carlo Festa, Vettor Luigi Bragarosa, Boso Roi, Tommaso Franco, Angelo Valmarana, tutti scomparsi, tutti altrove. Non ricordo invece, in Piazza dei Signori, l'imperioso Carlo Scarpa.
Oggi la piazza è vuota, popolata di fantasmi, che occhieggiano dietro ogni angolo per poi velocemente sparire. Le architetture mute che, nel corso dei secoli, hanno visto spiriti passeggeri come noi, hanno corpo e anima dentro i mattoni e le pietre; e si affrontano, come in una allegoria dell'età dell'uomo, mettendo a confronto il capolavoro perfetto e intatto della maturità di Andrea Palladio e il documento drammatico e incompiuto della sua vecchiaia: la Basilica, forse l'architettura più perfetta dell'intero Rinascimento, e il Palazzo del Capitano, con la sua pelle malata, sgretolata. In questo confronto delle due età di Palladio c'è verità, vita, storia del tempo e delle cose. Occorre fermarsi, molto presto di mattina o nelle serate dorate d'autunno, per vedere come la luce e l'ombra si agitano nell'organismo perfetto delle logge della Basilica.
La Basilica è costituita da un nucleo quattrocentesco attribuito a Domenico da Venezia (il Palazzo della Ragione), frutto della ricomposizione in un unico organismo di edifici pubblici di età medievale, e da un doppio ordine di logge di invenzione palladiana, tuscaniche al piano terra e ioniche al primo, che fasciano l'edificio su tre lati, lasciando emergere la parte sommitale dei muri decorati a losanghe e la grande copertura a carena di nave.
Il duplice loggiato concepito da Palladio è articolato, mediante semicolonne addossate a pilastri, in nove campate sui lati lunghi e cinque su quello minore, ed è composto dalla reiterazione del motivo della serliana, cui conferisce adeguato spessore la duplicazione in profondità delle colonnette, e una sobria preziosità il traforo dei pennacchi mediante oculi circolari. L'adozione della serliana, composta da un'apertura centrale ad arco e da due vani minori laterali architravati, consente, attraverso contenute variazioni della larghezza di quest'ultimi, e ferma restando l'ampiezza dell'arco di mezzo, di modulare con una certa elasticità la successione delle campate del loggiato, in modo da adattarle all'irregolarità delle aperture e dei varchi dell'edificio preesistente.
Pochi organismi architettonici sono più vivi. All'originario Palazzo di impronta gotica, con la copertura a carena di nave, fu aggiunto lo scalone di Pietro Lombardo e, a partire dal 1549, il duplice loggiato che fascia l'edificio preesistente, attribuendo una nuova monumentalità classica al superato Palazzo della Ragione, tanto da ispirare al Palladio stesso la definizione di «basilica», quale riproposizione dell'edificio pubblico per eccellenza dell'antica Roma. Un prodigio di armonia musicale. Di fronte, come un arioso dado di mattoni e di stucco, Palazzo del Capitano, con solo tre campate delle cinque previste. Alla luminosa integrità si contrappone il frammento, con le forme sagomate dei mattoni delle colonne senza intonaco sulle basi di pietra d'Istria: un edificio che sembra colpito dalla malattia e che, per ciò stesso, appare come un corpo vivo e tormentato. La piazza si chiude con il lungo edificio del Monte di Pietà, che incorpora al centro la Chiesa di San Vincenzo. Sul lato corto le due colonne con il Leone di San Marco e il Redentore. Pochi spazi sono un così armonioso teatro.
È per questo che appare incredibile che, non per la tragedia o la commedia, attraverso una pertinente compiacente scenografia, Piazza dei Signori sia diventata un campo di pallavolo con invadenti gradinate di sedili di plastica arancione, torri attrezzate per l'audio e per le luci XD, campo da gioco, lasciando i palazzi di Palladio come mortificate e inespressive quinte. Vedo le fotografie, e penso alla silenziosa città del mio ricordo, alle anime tormentate che l'hanno attraversata, alle parole, ai sussurri, alle ansie, alle inquietudini di giornate miti e silenziose. Così l'ha vissuta un amico turbato e disturbato, Adalberto Cremonese, che non la vuole ridotta alle sembianze di una triste periferia di campi sportivi. È troppo tardi per tornare indietro, per restituire dignità a quegli spazi, ma è importante richiamare i buoni amministratori al decoro e alla dignità dovuti a una città pomposamente riconosciuta patrimonio dell'umanità dall'Unesco.
Presto tutto tornerà come prima, il tempo lento degli incontri e delle finzioni consuete restituirà Piazza dei Signori alla sua dimensione e alla sua vocazione. Ho voluto interpretare il disappunto e il sentimento di inappartenenza di un amico vicentino che non voleva credere alla destinazione diminutiva di Piazza dei Signori, meditando fra sé e sé i versi di Montale: «Forse un mattino andando in un'aria di vetro,/ arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/ il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/ di me, con un terrore da ubriaco.
/ Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto/ alberi case colli per l'inganno consueto./ Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».Questi versi sembrano agitarsi nell'aria di una piazza di intatta perfezione. Le palle possono volare altrove.
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