Nel dibattito pubblico il mercato è quasi sempre sotto processo. Una diffusa cultura illiberale e (nei fatti) intimamente autoritaria continua a suggerire un supplemento di moralità che corregga le storture di una società globale considerata vittima delle ingiustizie derivanti dal profitto. Nel suo ultimo libro, Più etica nel mercato? L'inganno di un luogo comune e le responsabilità della politica (edito da Marsilio e in vendita a 16 euro) Paolo Del Debbio prende di petto questa persistente ostilità verso il capitalismo la quale di fronte a problemi come la diseguaglianza, il degrado dell'ambiente e le crisi finanziarie pretende «più etica» e, in altre parole, una diversa capacità di dirigere il sistema economico, evitando che proceda senza una direzione prefissata.
L'autore non nega che ci sia del vero nella richiesta di prendere sul serio la morale ogni qual volta si discute di economia. Una maggiore consapevolezza etica è sempre necessaria, ma egli rileva come tale retorica dica molto altro e di più e, in definitiva, sia spesso prigioniera di ragionamenti fallaci.
A chi propone «più etica» è allora necessario domandare chi mai dovrebbe dirigere il mondo produttivo. Perché se è vero che il mercato esige consumatori e imprenditori che conoscano le proprie responsabilità e agiscano di conseguenza (entro un quadro di regole giuste), va però sottolineato come questa moralizzazione della vita produttiva sia assai pericolosa quando deve discendere da un crescente potere dei legislatori, della magistratura e degli apparati burocratici di Stato.
In realtà, il saggio aiuta a comprendere come i nemici della libertà economica si siano inventati un fantoccio polemico, abbiano letto la realtà attraverso lenti che l'hanno distorta, propongano (non di rado) soluzioni che possono solo peggiorare la situazione presente.
Nella parte centrale del volume Del Debbio prende in esame una serie di teorie ed elaborazioni concettuali (da Stiglitz a Piketty, da Papa Francesco a Zamagni, da Deaton a Latouche) per valutare la portata delle principali critiche indirizzate al mercato. In linea di massima, egli appare molto scettico dinanzi a tali proposte e tende piuttosto a puntare il dito contro chi, in questi anni, non è stato in grado di affermare regole e istituzioni globali in grado di incanalare le forze del mercato. L'ambiente è stato sacrificato perché i governi non si sono saputi accordare (si veda il problema del riscaldamento globale), l'economia finanziaria ha generato crisi a ripetizione perché è mancata una regia generale che accordasse le azioni dei governi, le diseguaglianze si sono allargate (ma è poi vero?) perché non vi è stata una leadership in grado di costruire un solido accordo su obiettivi e strategie. E questo non è stato possibile in ragione della difficoltà a trovare, in campo morale, un minimo comun denominatore.
Se il libro appare convincente nella sua difesa del mercato, senza cui non vi sono proprietà e libera iniziativa (giustamente collocati tra i diritti fondamentali della persona), in tale proposta esso può mostrare il fianco a più di una contestazione. Ed è egualmente criticabile l'idea che il mercato sia un meccanismo, e non già un processo, e che come tale abbia bisogno di una guida e di una direzione dall'esterno.
In fondo, Del Debbio continua a pensare (a ragione) che esistano principi giuridici superiori al diritto positivo degli Stati, ma poi (a torto, a mio parere) sembra pensare che la loro traduzione in termini di validità spetti ai governi, che avrebbero il compito di creare le regole e farle rispettare. In verità la storia del diritto dallo ius civile dei giuristi romani alla common law inglese dei tribunali ci mostrano come le logiche dell'interazione volontaria di mercato possano elaborare, in forma spontanea, norme assai meglio rispondenti alle esigenze della società. Nel corso del Novecento è stata questa la lezione di Friedrich von Hayek e, soprattutto, del nostro Bruno Leoni.
E se non abbiamo bisogno dello Stato per avere un quadro giuridico entro cui operare, è ancor meno necessario che vi siano interventi da lontano e dall'alto: come avvenne nel 1944 a Bretton Woods, in tema di economia, e poi nel 1948 a New York con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, in tema di giustizia. Ed egualmente suscita perplessità la proposta, che Del Debbio fa propria, di orientare l'Unione verso una sorta di «comunitarizzazione» dei debiti nazionali, caricando sulle spalle delle formiche gli oneri assunti in decenni di politiche irresponsabili dalle cicale (Italia in primis).
Il mondo contemporaneo ha senza dubbio bisogno di «più etica» e quindi, come Del Debbio sottolinea, anche di «più mercato»: poiché solo nella libertà si può migliorare e solo nella libertà di scelta si può crescere e progredire, anche sul piano della civiltà dei comportamenti.
Ma i maggiori attori della scena internazionale, dagli Stati Uniti all'Unione europea, sono oggi chiamati non già ad allargare quel loro controllo sul mercato che ha già causato tante perturbazioni in questi anni, ma semmai a ritirare la loro presenza. Proprio al fine di rispettare nel migliore del modi quella priorità dell'individuo e dei suoi diritti sui poteri pubblici su cui l'autore del volume, giustamente, insiste con tanta forza.
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