Ci sono indizi dai quali una grande scrittrice riesce a capire la direzione della Storia con largo anticipo. È il caso di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la letteratura nel 2015. Nata in Ucraina nel 1948, cittadina bielorussa, censurata (anzi: cancellata) in patria dal presidente Aleksandr Lukasenko, la Aleksievic è maestra nell'arte della cosiddetta non-fiction. Raccoglie testimonianze sul campo, come potrebbe fare una reporter di razza, sceglie le vicende più significative e le rielabora in affreschi che raccontano più di un romanzo.
L'editore Bompiani sta pubblicando le Opere di Aleksievic, e ora è arrivato il momento del volume monumentale (a cura di Sergio Rapetti, pagg. 894, euro 35) che raccoglie due tra i libri più famosi e belli: Preghiera per Cernobyl (2005) e Tempo di seconda mano (2013). È proprio su quest'ultimo che ci soffermeremo.
Il Tempo di seconda mano è l'epoca di disillusione seguita al crollo dell'Unione sovietica. Gli anni Novanta del XX secolo avevano acceso la speranza di vivere meglio, con più opportunità e più libertà. La conversione al capitalismo però si è rivelata truffaldina: qualcuno, la vecchia élite ex comunista, ha arraffato tutto quello che poteva, lasciando le briciole alla gente comune. Il popolo non può nemmeno consolarsi con l'orgoglio di appartenere a un impero, per quanto dittatoriale. Ecco spiegati almeno due fenomeni: la nostalgia di un ideale, il comunismo, per il quale vivere (anche male) e l'ondata straordinaria di suicidi.
Nel capitolo introduttivo, la scrittrice tira in anticipo le somme per inquadrare le storie che seguono. Rilette oggi, quelle poche pagine sono impressionanti per la precisione dell'analisi e per la previsione azzeccata di quanto sarebbe accaduto nelle terre dell'ex Urss e soprattutto in Russia.
Aleksievic ha chiesto ai suoi testimoni cosa fosse la libertà. Per i figli, la libertà «è qualcosa di normale». Per i genitori, le cose sono più complicate: «La libertà è quando non si vive nella paura; i tre giorni di agosto in cui abbiamo sconfitto il putsch (il colpo di Stato contro Gorbaciov del 1991, ndr); se uno può scegliere tra cento diverse qualità di salame è più libero di un altro che deve sceglier tra dieci, dopo di che è insensato sperare nell'avvento di ipotetiche generazioni che non conosceranno il bastone; l'uomo russo non capisce la libertà, quel che ci vuole è il cosacco e la frusta».
Nella società «si è manifestata una forte domanda di Unione sovietica. Ha ripreso vigore il culto di Stalin. La metà dei giovani dai diciannove ai trent'anni considera Stalin un grandissimo politico. Un nuovo culto di Stalin nel paese in cui Stalin ha sterminato non meno gente di Hitler?! È tornato di moda tutto ciò che è sovietico».
Si va anche più indietro, perché la nostalgia dell'Urss non è altro che la nostalgia della Grande madre Russia degli zar. Scrive Aleksievic: «Rinascono idee di vecchio stampo; quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa (...) C'è il partito del potere che imita il Partito comunista. Il presidente ha altrettanto potere del segretario generale di prima. Un potere assoluto. E invece del marxismo-leninismo, l'ortodossia». C'è tutto, in nuce: la peculiare via russa teorizzata da Aleksandr Dugin, il potere assoluto di Vladimir Putin, l'ortodossia come nuovo orizzonte religioso ma anche ideologico. Conferma, tra i testimoni, un «quadro» burocratico di alto livello del Cremlino: «Per mentalità e nel suo inconscio il popolo è zarista. Ce l'ha iscritto nei geni. (...) Un Vaclav Havel può andar bene per i cechi ma noi di un Sacharov non abbiamo bisogno, è uno zar che vogliamo. Uno zar, un padre! Che si faccia chiamare segretario generale o presidente fa lo stesso, per noi è sempre uno zar».
Non manca il risentimento verso l'Occidente, in particolare gli Stati Uniti. Ecco cosa dice uno degli uomini interpellati dalla scrittrice: «L'Occidente ha sempre visto la Russia come un nemico, ne ha paura. Gli è rimasta come un osso in gola. Ci siano o meno i comunisti, a nessuno conviene una Russia forte. Ci considerano alla stregua di un magazzino: petrolio, gas, legname e metalli non ferrosi. E il petrolio ce lo pagano in mutandine. Eppure c'è stata una civiltà che faceva a meno di stracci e cianfrusaglie. La civiltà sovietica! A qualcuno faceva comodo che scomparisse». Quel «qualcuno» sono gli Stati Uniti. Sono questi i sentimenti a cui fa appello, fino a qui con successo, la retorica putiniana.
Nel rammarico per la fine di un grande Paese, trova posto, in una testimonianza, anche una ferita che ci proietta nel presente: la perdita della Crimea, penisola avvertita come parte integrante della Russia... L'anno seguente alla pubblicazione di Tempo di seconda mano, come sappiamo, la Crimea è stata annessa alla Russia, con una operazione militare poi ratificata da un referendum. Il problema di Putin era già l'Ucraina che aveva appena vissuto la rivoluzione di Maidan. Non è tutto, nel libro c'è anche chi vorrebbe l'aviazione russa nei cieli di Riga...
C'è spazio anche per una (modesta) opposizione a Putin e (più ampia) a Lukasenko; c'è chi riconosce la necessità di una conversione al capitalismo (purché sia russo, qualunque cosa significhi); non c'è però un'adesione, neanche alla
lontana, al modello occidentale. Questa Russia, che ha fatto in tempo a conoscere l'impero sovietico, si sente ancora alternativa all'Occidente. Come la penseranno i figli e i nipoti? Presto lo sapremo, nel bene e nel male.
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