"Il profitto senza etica genera mostri Parola di imprenditore"

Nel romanzo "La classe avversa", di Alberto Albertini, il passaggio delle aziende dalle famiglie ai supermanager

"Il profitto senza etica genera mostri Parola di imprenditore"

C he succede in un'azienda di oggi quando i vecchi padroni chiamano a dirigerla un super-manager che volta le spalle alla tradizione e intraprende la via della modernità, con tutte le incognite che le attuali difficoltà dell'industria e un mondo sempre più globalizzato presentano? Ecco cosa anima le pagine de La classe avversa (HACCA, pagg 320, euro 16), esordio narrativo di Alberto Albertini, bresciano, laureato in Filologia Moderna e da molti anni responsabile dell'innovazione e dello scouting tecnologico di un'azienda leader mondiale. Attraverso i travagli del figlio dei titolari, Lorenzo (in cui non è difficile immaginare che si specchi l'autore), Albertini racconta se stesso e il mondo che cambia, facendo citazioni come questa, da l'Ecclesiaste «Che vantaggio ha chi lavora con fatica?» e rispondendo a qualche nostra domanda.

Come le è venuto in mente di scrivere un romanzo?

«È il sogno che coltivo dall'adolescenza. Per tutti questi anni ho condotto una doppia vita, nell'industria e nella letteratura. Fino a quando ho capito, dopo aver letto i libri di Ottieri, che potevo conciliare due mondi che prima, se accostati, parevano un ossimoro».

Un suo personaggio, l'americano Butch, dice sempre, «Use your best judgement». L'industriale di oggi sa discernere?

«Siamo condannati a vincere. Everything is possible. Valore aggiunto in tutto quello che facciamo. Sembrano slogan americani, ma diventano un punto di riferimento, una guida, un mantra che galvanizza un'intera azienda fatta di persone con diverse aspirazioni e formazioni, che devono lavorare verso un obiettivo comune, superare i loro limiti, le normali frustrazioni e lo spirito di auto conservazione».

Un'azienda che per anni ha avuto una conduzione familiare vira verso un management moderno. Il figlio del padrone viene messo in discussione da un freddo direttore che guadagna più di lui. Succede davvero nell'industria di oggi?

«Sì, nelle aziende di famiglia che non trovano un'armonia e una conciliazione interna, che non preparano la successione in modo adeguato e per tempo, e che qualcuno (il mercato, la banca che vanta il maggior credito, un cliente importante) costringe a cambiare, a rinnovarsi in modo traumatico, magari con una quotazione in borsa, con persone esterne che portano altri metodi di gestione, più impersonali e orientati al breve periodo, alla remunerazione immediata».

Lei scrive: «La nascita di molte imprese è stata all'insegna del furto». Sembra uno slogan marxista dei primi anni '70.

«Invece l'ha detto il capitalista per eccellenza, il padre di Adriano Olivetti, Camillo. A casa ripeteva spesso: Ricordatevi che all'origine di ogni proprietà c'è sempre un furto. Lo disse dopo aver acquistato il Convento di San Bernardino a Ivrea per farne la sua abitazione».

Le è capitato, come succede a Lorenzo, di sentirsi chiedere da suo padre, quando gli ha annunciato cosa avrebbe studiato all'università, se era sua intenzione fare il barbone a vita?

«Me lo disse testualmente. L'aneddoto del professore che chiede un prestito a lui, direttore di banca alla Cariplo, ed è costretto a portare la moglie per firmare la fideiussione, è vero».

Il manager dalla doppia vita non le pare un cliché?

«Direi che è normale perché, come disse Hannibal Lecter nel film Il silenzio degli innocenti, noi desideriamo ciò che vediamo ogni giorno. Sul lavoro si trascorre più tempo che in famiglia. Scontato che nascano proprio lì occasioni prolungate e ripetute di conoscenza reciproca, di intimità e condivisione delle emozioni».

Un tempo, la fabbrica era il primo teatro di aspre lotte e rivendicazioni sindacali, ma si ha la sensazione che la solidarietà tra le parti e l'orgoglio dell'operaio nell'essere protagonista del processo produttivo fossero superiori rispetto a oggi. Che ne pensa?

«Ne sono convinto. C'erano forti contrapposizioni sindacali, ruoli fissi che a volte costringevano a scelte dure da entrambe le parti, senza conciliazione e dialogo. Ma gli imprenditori erano patriarchi, socialisti dentro, e le aziende erano grandi famiglie con un forte senso di appartenenza, ognuno orgoglioso del proprio ruolo utile, di crescita personale e collettiva. Oggi le migliori sono ancora tali. Ci vorrebbero più fermento ed entusiasmo ovunque in Italia».

Lei scrive: «La democrazia ha generato solo inefficienza. Siamo una repubblica fondata sul lavoro». Pensa che il lavoro sia realmente mai stato un diritto in Italia?

«Spesso c'è stata una percezione errata del lavoro: man mano che cresceva il benessere economico si dava per scontato che le fabbriche sarebbero durate in eterno, assumendo regolarmente, che il lavoro fosse un servizio che lo Stato e i privati mettevano a disposizione di tutti. In realtà, il lavoro prevede una corresponsabilità, un impegno continuo, una reciprocità e un senso etico che non lo rendono mai scontato».

Il super-manager Cagnoni dice che «nel business non esiste etica». Sono parole che lei condivide?

«Io sono il contrario e lavoro con orgoglio per un'azienda che fa dell'etica uno dei suoi valori fondanti. L'ho imparato da mio padre che è stato innanzitutto onesto. Però ho visto tanti professionisti e imprenditori spregiudicati, con il pelo sullo stomaco, che grazie ai concordati, all'evasione delle tasse, a investimenti temerari, addirittura a consulenze finanziarie truffaldine (io stesso ne sono stato colpito), si sono arricchiti senza ritegno, senza coscienza né tantomeno etica».

È vero che «gli imprenditori di razza scelgono con la pancia?». Ricordo di aver letto che Gianni Agnelli prima di prendere decisioni importanti andavano a farsi fare le carte

«È la loro dote migliore, sono grandi imprenditori proprio perché hanno quell'istinto, il fiuto per le persone e i

loro talenti, il saper cogliere un'opportunità, una sfida al momento giusto, anche rischiando, con stile audace. Le carte della chiromante sono forse una leggenda metropolitana, io vedo piuttosto un'inclinazione naturale».

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