Quando la scienza trascina il mondo nel suo lato oscuro

Scoperte, errori, feticci ed effetti inattesi: l'aspetto meno celebrato del mito moderno

Quando la scienza trascina il mondo nel suo lato oscuro

La divinità estende le sue braccia, lunghe e molteplici, sul pianeta intero. Arriva ovunque, perfino nelle nostre menti. La divinità è inarrestabile, resistere al suo potere e al suo fascino è impossibile e, dall'illuminismo in poi, (quasi) nessuno osa mettere in dubbio che la divinità sia sacra, che la sua autorità sia assoluta. Eppure, la dea fa paura. La dea, la scienza, fa paura tanto quanto è indispensabile alle nostre vite; e fa paura perché, come la divinità dalle molteplici braccia, non porta soltanto al bene. A volte la scienza, le sue scoperte, l'utilizzo che ne viene fatto, trascinano verso il male, assoluto anche lui.

Al cuore della dea c'è il buio, una oscurità che non è soltanto una suggestione, o un timore da umanisti romantici, o una resistenza da bigotti: è l'altro lato della nostra luna luminosa, che gli stessi scienziati hanno intravisto e, quando è successo, qualcosa è cambiato. Lo raccontano, in modi molto diversi, Benjamin Labatut e Naomi Oreskes: il primo è uno scrittore olandese che vive in Cile, la seconda è una professoressa di Harvard, dove insegna Storia della scienza e Scienze della Terra. Perché fidarsi della scienza? (Bollati Boringhieri, pagg. 194, euro 20) di Oreskes è un saggio, che si muove sul terreno della filosofia della scienza e dell'epistemologia e che nonostante, o forse proprio per via dei dubbi che semina, dà una risposta alla domanda del titolo; e la risposta è basata su una visione consensuale e collettiva della scienza, il che forse può sembrare poco, ma in realtà è moltissimo, se si pensa che la studiosa fa a pezzi il feticcio del metodo scientifico, mette in discussione l'autorità della scienza e l'ideale della sua purezza e neutralità e mostra una serie di errori compiuti, più o meno in buona fede, negli ultimi secoli, che sono la prova che anche l'esattezza può essere sbagliata (però, cosa importantissima, ce ne siamo accorti, o meglio, altri scienziati se ne sono accorti). Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, pagg. 180, euro 18) di Labatut è un romanzo, una «non fiction novel» dicono gli anglosassoni, in cui il lato oscuro è scandagliato a livello intimo, umano, e l'umanità di cui parla Labatut sono gli scienziati stessi. Si parte da un colore, il blu di Prussia: una tonalità magnifica, così magica da ricordare il misterioso hsbd iryt, il blu del cielo dei dipinti egizi, la cui formula andò perduta. All'inizio del Settecento, uno svizzero di nome Diesbach inventa nel suo laboratorio il blu di Prussia (anche se in realtà sta cercando il carminio), poi si fa fregare il business dal suo finanziatore, l'entomologo Frisch (le cui idee sulla coltivazione dei gelsi saranno riprese dai nazisti), ma ciò che è più importante è l'apporto del suo assistente, un certo Dippel, alchimista, proprietario del castello di Frankenstein a Darmstad, noto per la sua crudeltà e perversione nel sezionare e sperimentare su animali vivi e morti. Nella leggenda nera di Dippel emerge quell'oscurità che avvolge la scienza nel suo profondo: il suo «elisir di lunga vita» sarà versato dai nazisti nei pozzi d'acqua del Nordafrica per fermare gli inglesi; il suo meraviglioso blu comparirà nella Notte stellata di Van Gogh e nella Grande onda di Kanagawa di Hokusai, «ma anche nell'uniforme della fanteria dell'esercito prussiano, come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l'ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell'alchimista che faceva a pezzi animali vivi». Questi mostri ispirarono a Mary Shelley il suo Frankenstein, in cui «mise in guardia contro il progresso cieco della scienza, la più pericolosa di tutte le arti umane».

Questo è soltanto un assaggio di Labatut e degli intrecci in cui travolge il lettore. Dall'inquietante Dippel si passa al chimico Carl Scheele, scopritore di sostanze e colori, che inventò un favoloso verde smeraldo grazie all'arsenico (e avvelenò così sé stesso, molti bambini e probabilmente anche Napoleone, che adorava la tinta) e scoprì il cianuro, unendo... il blu di Prussia e l'acido solforico. Che dire del cianuro? Morti illustri, da Turing ai vertici del Terzo Reich, al «resistente» Rasputin; fino alla sua combinazione mostruosa con una serie di altre sostanze che portò a un potentissimo pesticida, lo «Zyklon», ovvero il «ciclone». Così potente da avere sterminato milioni di ebrei nelle camere a gas. Solo che ad inventarlo era stato un ebreo (ignaro dell'uso che ne avrebbe fatto il governo del suo adorato Paese), Fritz Haber, la mente che concepì il primo attacco col gas durante la Grande guerra, il che spinse la moglie Clara, chimica anche lei, al suicidio («lo accusò di aver corrotto la scienza al fine di creare un metodo di sterminio di massa...»); lo stesso Haber che vinse il Nobel per la chimica, perché aveva scoperto come estrarre azoto dall'aria e, in pratica, aveva risolto per sempre il problema dei fertilizzanti. Haber, lo sterminatore, è anche l'uomo che ha liberato mezzo mondo dalla fame e consentito il boom demografico, insomma è l'uomo che ha portato al mondo di oggi.

Tutto questo dimostra, come scrive Oreskes, che «non possiamo eliminare il ruolo della fiducia nella scienza, ma gli scienziati non dovrebbero aspettarsi che il pubblico accetti le loro dichiarazioni soltanto in virtù di essa». Gli scienziati non sono soltanto fallibili, sono persone con i loro valori (per fortuna, anche: chi si fiderebbe di qualcuno «senza valori»?), anche se faticano a dichiararli, e sono sì «esperti», ma soltanto di quella che Oreskes chiama la «relazione con il mondo». Insomma, se parlano d'altro, non sono più esperti, anzi... «Il punto è che la nostra fiducia non va agli scienziati - per quanto saggi o retti possano essere - ma alla scienza in quanto processo sociale, che sottopone le proprie affermazioni a rigoroso scrutinio». Questo perché «il metodo scientifico» è un miraggio, una «formula magica» che non esiste se non nell'immaginario, superata dall'«immagine della scienza come attività comunitaria di esperti, che impiegano metodi diversi per raccogliere evidenza empirica e passano al vaglio le conclusioni che ne traggono». In questo senso, la diversità di valori e opinioni fra scienziati è una garanzia ulteriore di controllo; l'«attività neutrale è un mito», perché «l'utile» è da sempre parte della ragion d'essere della scienza; e, «se la storia della scienza ci insegna qualcosa, è l'umiltà».

Oddio, l'umiltà a volte abbandona i personaggi di Labatut, eppure è proprio nelle nebbie di Helgoland, quando Heisenberg si immerge nel mondo quantistico, o sul fronte russo, quando Schwarzschild è impegnato con le truppe tedesche e a risolvere le equazioni della relatività di Einstein, è lì, quando la mente arriva alle sue vette, a un passo da una rivoluzione, che il passo successivo conduce nell'abisso: l'inconoscibilità al cuore del piccolissimo, il caos e l'indeterminazione delle particelle subatomiche; l'inconoscibilità del mostruosamente grande, di quei buchi neri (di cui Schwarzschild per primo intuì l'esistenza), in cui ogni razionalità che per noi governa la realtà salta, e non vi è più nulla di intelligibile, non vi è più nemmeno la luce, e c'è solo una immensa, paurosa oscurità.

Nella più perfetta delle teorie, nulla ha più senso. Tutto funziona, grazie a questa teoria: internet, i treni, i cellulari, eppure «non c'è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente». E il mondo è «un meraviglioso inferno».

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