Quei "Black Tulips" colti da Trevisan odorano di "Petrolio"

Un libro frammentario e con ipotesi di capitoli che somiglia all'opera incompiuta di Pasolini

Quei "Black Tulips" colti da Trevisan odorano di "Petrolio"

Non so se Vitaliano Trevisan avrebbe acconsentito alla pubblicazione di Black Tulips (pagg. 226, euro 17). Si tratta, lo scrive l'editore, Einaudi, di un'«opera postuma» e «interrotta»; non credo sia «quella che gli assomiglia di più» - lo scrive ancora l'editore: su quali basi? boh! - e non credo sia il libro più bello scritto da Trevisan. Assemblarlo - proprio così, come se gli scrittori fossero parti di un macchinario, valvole del sistema fordista dell'industria culturale italiana - tra i «più grandi autori della sua generazione» di certo lo avrebbe fatto incazzare. Qualche anno fa - era il dicembre del 2017, aveva vinto il Premio Riccione con un testo per il teatro, genere in cui eccelleva, Il delirio del particolare - Trevisan mi aveva detto, «non credo di essere un contemporaneo». Aveva aggiunto una chiosa - l'intervista divagò, brusca; Trevisan era qualcosa tra lo spettro e il molosso -: «il presente lo subisco, come molti (o forse tutti), e cerco di sopravvivere il meglio possibile».

Il gioco, ad ogni modo, è chiaro. Morto uno scrittore - meglio se tragicamente - ne fanno un idolo. La struttura di Black Tulips, l'anticamera di un romanzo senza vettovaglie retoriche, ricorda quella di Petrolio: Pasolini racconta la politica italiana, «la storia dell'Eni», un'antropologia del sadismo e del masochismo; Trevisan racconta un viaggio in Africa, la storia della prostituzione nigeriana in Italia - che proviene, in particolare, da Benin City -, la centralità del sesso, non della sessualità o masturbatorie simili («Quando ci si spoglia, da soli o con qualcuno, è esattamente il sesso quello che ci resta. Sesso - parola chiave - e non in senso astratto, ma nel senso del cazzo, per chi scrive, o della figa... Dunque, nella realtà, inevitabile netta divisione secondo il sesso, e perciò sessista per definizione, in un senso come nell'altro»). Entrambi i libri sono frammentari, costituiti da ipotesi di capitoli, agnizioni improvvise, simulacri: in Petrolio ricorrono, ad esempio, brani come «Il Merda», «L'Epochè», «I Godoari»; in Black Tulips abbiamo «Lo Stigma», «UMC» (che sta per: U must c with your own eyes, «una frase che ricorreva spesso quando mi parlava della Nigeria»), «IGH» (Imperial Garden Hotel). Il libro di Trevisan è prolifico di «Avvertenze» - che dovrebbero «essere stampate su apposito foglio illustrativo a parte, sapientemente ripiegato (bugiardino)» -, quello di Pasolini di premesse, antefatti, digressioni, prefazioni posticipate.

In sostanza, Black Tulips è stato creato - e così viene promosso - come «un libro di culto», indipendentemente da ciò che è: di un cadavere si fa mercato, è onorevole mettere i morti in guêpière (Trevisan aveva un carattere complicato). Il libro, più che altro, racconta di Trevisan che va a puttane - «per il cosiddetto senso comune, e, molto probabilmente, anche per qualcuno che sta leggendo, ero, anzi sono senz'altro un lenone, o pappone, o protettore, o magnaccia eccetera, cioè uno che, se anche non sfrutta direttamente, sicuramente favorisce il cosiddetto sfruttamento della prostituzione» -, che preferisce le nigeriane, che va in Africa a trovare un'amica, per così dire. L'Africa di Black Tulips - sottotitolo: «un quaderno nigeriano» - non è turistica ma violenta, non è quella pittorica di Karen Blixen né quella lirica di André Gide (che fece un salutare Viaggio al Congo nel 1926); a me ricorda l'Africa torbida, complice, calda, fatiscente descritta da Denis Johnson in Mostri che ridono (in Italia, stampa sempre Einaudi, 2016). In Africa, Trevisan - ovvero: il protagonista del libro - vuole «mettere in piedi un traffico di parti di ricambio (usate) per auto (ancora più usate), tra l'Italia e la Nigeria». Il libro alterna paragrafi banali («Né l'uomo né la donna sono più in grado di reggere un modello di famiglia classico, basato su un padre che non c'è più, e, di conseguenza, su una madre che non c'è più. E nonostante tutto questo sia evidente, si persiste nel voler tenere in piedi la baracca») ad altri di esilarante crudeltà (a pagina 212 e seguenti Trevisan dimostra che il traffico di prostituzione da Benin City comincia grazie al pellegrinaggio di «cristiani nigeriani» a Roma: «le donne nigeriane si resero conto che la prostituzione rendeva bene e che potevano approfittare del soggiorno per esercitare la professione e investire poi il guadagno acquistando capi di vestiario da esportare»). Alcuni passi, mitomania oscura, sono utili a glassare il personaggio, sono belli: «Curioso fatto che io tenda a identificarmi in uomini come Williams, o Orton, o Fassbinder, o Bacon, o Burroughs, al punto da farne dei modelli, oltre che artistici anche di vita - vita che, per quanto mi riguarda, non è mai altro dall'opera, e intendo la mia non meno della loro; o la loro non più della mia».

Tuttavia, non mi pare che le librerie italiane siano invase da Black Tulips. Al contrario, brulicano colonne impilate dell'ultimo libro di Marco Missiroli, Avere tutto (stampa sempre Einaudi). Ecco: un buon esercizio per capire dove va la letteratura italiana contemporanea è leggere, insieme, sinotticamente, Black Tulips e Avere tutto. Da una parte - lato Missiroli - c'è un romanzo risolto, corretto, di trama, che si legge in un amen, predisposto per la serie tivù, che vedremo presto all'estero (si fa in fretta: basta copiaincollare il testo su Google Traduttore). Un caso di studio: chi ha occhio riconoscerà i tagli chirurgici, l'opera di montaggio, l'etica dell'editing, suprema. Dall'altro - sponda Trevisan - maneggiamo un libro sporco, risoluto nell'irrisolutezza, brodaglia volgare, tumefatto da vicoli oscuri, crolli, vuoti, a volte brutto e brutale, non privo di scene cristalline (l'incontro con Hellen, nigeriana che pratica a Verona, che scoppia in pianto sul petto dell'autore, che sa amare: «a prendermi alla sprovvista fu la passione a cui io mi abbandonai, lasciandomi esplorare senza opporre resistenza»; non si vedranno mai più). Insomma, da una parte abbiamo un romanzo affascinante ed esangue, un Big Jim in carta igienica, dall'altro un libro fratturato, malmenato, vitale, sanguigno. Fosse per me, assegnerei il Premio Strega, postumo, a Vitaliano Trevisan: non in suo onore - non gliene fregava nulla neppure in vita - ma per riscattare l'ipocrisia editoriale italica dal suo atavico perbenismo, dalla lascivia dei biechi, dei tenui.

Quella volta, Trevisan mi disse che «lo scandalo è non tanto essere politicamente scorretti, atteggiamento che mi disgusta almeno quanto quello contrario, ma riuscire a non essere né l'uno né l'altro - ovvero insistere nel chiamare le cose col loro giusto nome». Chiamare le cose col loro giusto nome - e insistere - è letteratura, dunque vita; il resto è fiction, la mortificazione del gesto letterario.

Per leggere Black Tulips bisogna trovare un luogo adatto; ogni libro autentico lo richiede. Io ho scelto un albergo in disuso da decenni, alla periferia di Riccione.

L'erba ha scassato il cemento della piscina, l'edera ha divorato l'ingresso e la scala esterna, come un enorme vampiro verde; dove c'erano i campi da tennis, è nata una giungla. Mentre leggevo, è sbucato un cane, selvaggio, aggressivo. All'inizio, maculato dall'ombra, giunto da chissà quale erebo della mente, mi è sembrato un giaguaro. La reincarnazione di Trevisan, ho pensato.

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