"Raffinati e riflessivi. Ma la violenza è sempre parte di noi"

Parla l'autore di "Nova": "Siamo geniali e aggressivi. Forse gli istinti vanno gestiti"

"Raffinati e riflessivi. Ma la violenza è sempre parte di noi"

«Mi si è rotta la macchina e sto aspettando il carro attrezzi, però sì, posso parlare...». Fabio Bacà risponde da San Benedetto del Tronto, dove lavora e dove è nato, nel 1972, anche se oggi vive ad Alba Adriatica. A San Benedetto c'è la «sala fitness» dove Bacà insegna «ginnastiche dolci e posturali» e fa il personal trainer. È la sua professione, accanto a quella di scrittore, e non uno scrittore da tutti i giorni: uno che, a 47 anni, ha esordito con il suo primo romanzo, e l'editore era Adelphi. Quel libro si intitola Benevolenza cosmica, ha vinto il premio Severino Cesari 2020, è arrivato alla quinta edizione, in marzo sarà pubblicato da Gallimard e ora è stato seguito da un secondo romanzo, Nova (sempre Adelphi, pagg. 280, euro 19).

Fabio Bacà, questo dell'auto sembra uno di quegli imprevisti che capitano ai suoi personaggi, come Davide Ricci, neurochirurgo di Lucca, protagonista di Nova, o come Kurt O'Reilly di Benevolenza cosmica.

«È vero, i miei personaggi sono sempre tempestati da imprevisti... Il mio tipo di letteratura è quello di genere, come Stephen King, in cui all'eroe o all'antieroe succedono parecchie cose. Amo questo tipo di letteratura, non cerebrale, ma in cui accadono fatti, tanti fatti, anche emotivamente ponderosi».

Però i suoi romanzi sono anche cerebrali.

«Sì. In parallelo amo anche un tipo di letteratura più profondo, che induca alla riflessione. Un libro deve innanzitutto far divertire il lettore; però, se riesco a inserire qualche mia riflessione, credo sia un di più».

In questo caso la riflessione riguarda la violenza, con la quale Davide Ricci si ritrova ad avere a che fare. Perché proprio la violenza?

«Ho preso spunto da tante cose, innanzitutto da quello che vediamo ogni giorno: ovunque ci giriamo, ci vengono propugnate immagini di violenza quasi compulsiva. Poi una volta ho letto un articolo di Massimo Fini, che citava una statistica secondo cui, su dieci tentati stupri sventati da privati cittadini, in gran parte ad averli sventati erano stranieri, slavi o nordafricani».

Conclusione?

«L'occidentale prototipico, quale è l'italiano, si è rammollito. Non è più capace di proteggere una donna. Non ha più quella rabbia interiore che, se gestita, può essere produttiva. Ho letto quell'articolo dieci anni fa, mi ha colpito, è rimasto lì e poi...»

E poi ne è nato il paradosso che percorre tutto il romanzo, il koan, per dirlo all'orientale. Ce lo spiega?

«La civiltà, la religione, i principi dello Stato ci impongono di non usare la violenza per risolvere le controversie; ma in noi abbiamo questo istinto e, a volte, non c'è altro modo di risolvere una situazione. Forse c'è qualcosa di sbagliato nel sopprimere gli istinti, nel fare come se non ci fossero: forse dovremmo imparare a gestirli».

Non è un crinale pericoloso?

«Molto, può essere frainteso».

Non è che tutti siano maestri zen, come Diego, il mentore di Davide...

«No, e neanche siamo tutti esperti di arti marziali. Io non voglio certo fomentare la violenza, ma il romanzo dice: conosci te stesso perché, comunque, questi istinti li abbiamo e potrebbero venire allo scoperto nei momenti peggiori. Se li conosciamo e li gestiamo, è meglio».

La grecissima conoscenza di sé: come si affronta l'indagine? Attraverso la letteratura? La religione? La psicanalisi?

«Esistono tante metodiche. Non è casuale che, nel libro, parli di meditazione e zen, come in Benevolenza cosmica citavo il karma, perché è un modo per guardare dentro di noi. Ho iniziato a scrivere Nova tre anni fa e ho letto moltissimi libri sullo zen e una considerazione che si può fare è che, quando uno guarda dentro di sé, a fondo e a lungo, di solito vede qualcosa che non gli piace. Ma perché questa cosa che vediamo deve essere negata? Non siamo uno, siamo molto di più e, più ne sappiamo, meglio è».

Tutto questo discorso, nel romanzo, non ha alcun tono new age, anzi: la scienza, la medicina e l'astronomia in particolare, sono componenti fondamentali.

«Mi sento uno scientista, io ho fiducia nella scienza. Ho voluto che il protagonista fosse un neurochirurgo per evidenziare la dicotomia che esiste tra quello strumento meraviglioso che è il nostro cervello, capace di qualunque cosa, e che forse, fra qualche decennio, ci porterà su Marte, e questo istinto, così volgare, che è la violenza. Una dicotomia che mi affascina moltissimo. Scriviamo sonetti come Shakespeare, facciamo scoperte scientifiche grandiose, poi non troviamo parcheggio e ci prendiamo a cazzotti».

C'è una parte misteriosa e oscura anche nel cervello: le allucinazioni, la follia.

«Le mie fonti di ispirazione, in questo, sono state due: Fight Club, sia il romanzo di Chuck Palahniuk sia il film di David Fincher, con la follia del doppio e American Psycho di Bret Easton Ellis, con la follia omicida del protagonista. Mi colpì l'ostracismo che subì Ellis dopo averlo pubblicato: per le scene di violenza descritte fu considerato quasi un pervertito, come se ci si dimenticasse che era fiction...».

Come si conciliano queste due anime, la scienza e lo zen?

«Credo attraverso il duro lavoro. Ora ho iniziato un altro romanzo. Faccio come diceva Terzani, culo sulla seggiola, e ci si sposta».

È così che ci si ritrova con il primo romanzo pubblicato da Adelphi?

«Ne avevo già scritto un altro, un po' sperimentale, per mettermi alla prova. Avevo 37 anni, ne avevo impiegati quattro per scriverlo e non era andato bene. Ho attraversato qualche anno di depressione, fra il 2014 e il 2015: avevo perso il lavoro in palestra, avevo un problema all'occhio, il romanzo era stato rifiutato...»

E poi?

«Mi è venuto in mente questo spunto, che a me le cose andavano male, ed ero infelice; ma che cosa succede a uno a cui invece va tutto bene, troppo bene? A uno bersagliato dalla fortuna?»

Come Kurt di Benevolenza cosmica.

«Nella primavera del 2016 ho iniziato a scrivere e, siccome ero senza lavoro, a ottobre avevo già finito il romanzo. Poi l'ho rivisto e ho iniziato a spedirlo in giro, via mail, finché il 18 gennaio del 2018, me lo ricordo perfettamente, Agnese Incisa mi rispose che era bellissimo. Agnese Incisa è una agente bravissima, quindi lì ho capito che la mia vita sarebbe cambiata, anche se certo non immaginavo che, quattro mesi dopo, avrei firmato un contratto con Adelphi. Quella sera del 18 gennaio mi è venuto 39 di febbre».

Nella vita precedente che cosa aveva fatto?

«Per un po' il giornalista in testate locali, poi tanti lavori: il bagnino, il cuoco e l'aiutocuoco in ristoranti macrobiotici, poi l'istruttore in palestra, dal 2006. Ma non ho mai perso il desiderio di scrivere e la mia compagna mi ha sempre sostenuto».

Ora si è sbloccato.

«So che devo trottare. Questo romanzo è diverso dal primo. Un vantaggio dell'esordire tardi è che c'è una bella fetta di illusioni sepolte da tempo, quindi posso permettermi di osare».

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