La Rivoluzione francese è finita La furia giacobina, invece, no

Burke criticò la visione del mondo del 1789 perché ne intuì le conseguenze. E la "tirannia della libertà" è arrivata a oggi

La Rivoluzione francese è finita La furia giacobina, invece, no

Perché leggere oggi le Riflessioni sulla rivoluzione francese di Edmund Burke? Un classico va sempre letto collocandolo nel momento e nella fase storica, e per questo motivo, sarà sempre al tempo stesso attuale e inattuale. Crediamo tuttavia che il presente aiuti a ritornare a leggere la principale opera del grande pensatore inglese, come testimoniano non solo i lavori del principale esponente del conservatorismo inglese, Roger Scruton, per cui Burke resta un riferimento imprescindibile, ma anche i libri recenti di non specialisti, che indicano Burke come un punto di riferimento importante.

Qualcuno si chiederà se abbia senso rileggere un testo di critica della Rivoluzione francese, un evento distante nel tempo, ormai definito, e che nella storia pare si sia imposto, assieme ai suoi princìpi e alle sue istituzioni: solo una nobile testimonianza di qualcuno che non aveva compreso dove portasse il corso della storia? In realtà Burke colse con chiarezza dove tale corso portasse, benché rifiutasse la filosofia della Storia, cioè l'idea di un suo movimento progressivo verso un fine. Proprio perché l'aveva pienamente compreso, e in anticipo rispetto a molti altri critici della Rivoluzione, egli aveva ingaggiato con l'evento rivoluzionario una sfida filosofica.

Burke era convinto che la Rivoluzione non si sarebbe limitata a cambiare la Francia, ma che al contrario si sarebbe espansa ovunque, prima in Europa poi nel mondo. In quanto evento religioso e non semplicemente politico, un credo universale e universalistico, la rivoluzione avrebbe cercato adepti ovunque, sarebbe stata spietata con chi vi si opponeva, e i suoi effetti sarebbero durati per molti secoli. Ed è quello che è accaduto.

La Rivoluzione francese non è infatti ancora finita. Da religione dei diritti dell'uomo, come genialmente intuito da Burke, i suoi effetti continuano ancora oggi, quando prende le fattezze di una rivoluzione antropologica, di un tentativo di costruire l'uomo nuovo, visto che la rivoluzione disprezza la natura umana e l'uomo come realmente è, e intende sostituirla con una nuova (e, secondo la rivoluzione, più vera e perfetta) natura, secondo i dettami imposti della ragione e dei diritti.

Non vediamo forse oggi in azione le stesse pulsioni e gli stessi desideri di creare un uomo nuovo nella bio-politica, negli esperimenti genetici di riproduzione senza passare dall'atto sessuale, nei ripetuti inviti al trans-umanesimo? La rivoluzione dei diritti dell'uomo continua. Come aveva capito Burke, essa non solo è universale e universalista ma potenzialmente illimitata. L'estensione dei diritti dell'uomo, come mise in guardia Burke, non si sarebbe infatti limitata alla libertà individuali e all'eguaglianza di fronte alla legge. La spinta all'eguaglianza è talmente forte da non essere disposta a recedere di fronte a nessuna forma giuridica e istituzionale: e già nel 1790 era del resto possibile vedere come la spinta all'eguaglianza investisse le proprietà e le ricchezze.

In questi due secoli i diritti si sono quindi estesi, sono diventati sociali, per finire ai diritti dell'individuo a disporre interamente di se stesso. Anche se non sono venute meno, nonostante la sconfitta del comunismo, le pulsioni di carattere collettivistico e livellatore, che sembrano anzi in questi anni aver ripreso piede nei partiti e nelle formazioni socialiste anche di lunga tradizione riformista. Non è un caso: come scriveva François Furet, proprio sulla scorta di Tocqueville e di Burke, nella religione della democrazia l'idea di eguaglianza assoluta occupa il posto centrale, un'eguaglianza da perseguire anche e soprattutto di fronte alle ricchezze, poco importa se siano state conseguite ereditariamente o siano sforzo del lavoro individuale. A questo si aggiunga la miopia delle politiche, spesso plutocratiche, del big business o dei grandi gruppi finanziari, che hanno contribuito a gettare discredito sul capitalismo tout court.

Le pagine delle Riflessioni contro la violazione della proprietà e la sua rivendicazione come frontiera inalienabile a tutela della libertà individuale non sembrano quindi aver perso di attualità rispetto agli anni della guerra fredda, che videro la nascita, negli Usa, di una cold war burkean conservatism, con il testo fondamentale di Russell Kirk.

Come la rivoluzione rischiava di trasformarsi in dispotismo, cosa che avvenne prima con il Terrore, poi con il termidoro, infine con il bonapartismo, così la sua costituzione attuale rischia di introdurre il dispotismo della libertà, un ossimoro già diffuso all'epoca da Maximilien Robespierre. Lo possiamo vedere nelle censure, per ora limitate, si fa per dire, ai campus americani e ai college inglese (ma anche in qualche università francese e pure italiana) nei confronti di chi non intende sottostare al culto del progresso dell'individuo assoluto e dei diritti illimitati. A chi non si conforma è risparmiata, almeno per il momento, la ghigliottina reale, non però una gogna morale che discredita chiunque si opponga al paradigma liberale progressista, tanto più potente quanto più sostenuto dai media, il cui partito trans-nazionale sta, salvo poche eccezioni, sempre dalla parte della religione dei diritti dell'uomo. Contro le aporie di questa religione secolarizzata le pagine di Burke sembrano scritte oggi.

Potrebbe invece sembrare tristemente inattuale il richiamo di Burke alla tradizione e all'idea che esistiamo nel presente solo perché dietro di noi si stende una catena del passato e davanti a noi una del futuro, i cui nessi non devono rompersi: nel passato attraverso i morti, le generazioni che ci hanno resi quelli che siamo; e nel futuro, perché morti e vivi contribuiscono, in ogni momento, a formare coloro che ancora non sono nati e che nasceranno. È quindi di particolare importanza il concetto classico, aristotelico e tomistico, di prudenza, che per Burke, debitore dello stagirita e sempre influenzato dal cattolicesimo, anche dopo la sua conversione all'anglicanesimo, è una delle chiavi per la comprensione del fenomeno umano e politico in primo luogo. Prudenza nell'introduzione di nuove misure, prudenza nel considerare un miglioramento o un progresso rispetto a quelle passate, prudenza nel valutare gli effetti delle politiche intraprese.

Per quanto non la citi espressamente in questi termini, in Burke è costantemente presente la legge dell'eterogenesi dei fini, propria dell'Illuminismo scozzese: che insegna quanto le intenzioni, anche le più nobili, possano rovesciarsi in conseguenze devastanti e nefaste.

Il concetto di tradizione, quindi, resta inseparabile da quello di prudenza: si deve camminare lentamente, e anche prevedere la possibilità di tornare indietro, se ci si rende conto che qualcuno intende strappare, cancellare o forzare la tradizione: un corpo stabile e definito e al tempo stesso in lenta evoluzione, dotato di un suo tempo «naturale» che agli individui non è dato manipolare.

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