In Romanzo con cocaina la cocaina arriva a pagina 131, e a quel punto il cervello del nostro eroe, Vadim Maslennikov, specie di incestuoso incrocio fra Tom Sawyer e l'«uomo ridicolo» di Dostoevskij, è ridotto in pappa, maceria per psichiatri. «In questo stato di angosciosa malinconia, mai sperimentato prima, chiudo gli occhi. E lentamente e dolcemente la stanza comincia a girare e a cadere in un angolo. L'angolo scende più in profondità, striscia sotto di me, poi striscia alle mie spalle, si solleva su di me e di nuovo, ma impetuosamente, cade».
Prima della cocaina, c'è il ginnasio. E c'è la carne. Questo è un romanzo di formazione capovolto, dissoluto, ambientato nella Russia putrefatta dai rivoluzionari, fra sigarette, crimini di gioventù, cinismo («Se in quelle ore mi avessero mostrato una leva e, proponendomi di abbassarla, mi avessero detto che all'abbassarsi della leva sarebbe saltata in aria tutta la Germania, lasciando solo corpi mutilati avrei azionato la leva senza fermarmi a riflettere neanche per un istante»), sesso («Ogni volta mi portavi in una qualche topaia, strappavi da me e da te i vestiti e mi prendevi ogni volta in maniera più selvaggia, più crudele», scrive al lurido Vadim la divina Sonja). Il giovane Holden rifatto da Eduard Limonov. Ecco. Lo direi così. Un romanzo trasandato, candido, cattivo. Che nasconde, tra le segrete, un «caso», un gioco al massacro, una latitanza.
Romanzo con cocaina viene stampato a Parigi, a puntate, da un paio di riviste dell'emigrazione russa, nel 1934. Il plico che contiene il manoscritto sbarca da Costantinopoli, è firmato M. Ageev. La storia termina lì. I decenni passano, come bicchieri frantumati. Il nome di M. Ageev riappare nel 1980 - qualcuno, tra Parigi e Istanbul lo va cercando -; tre anni dopo, Roman avec cocaïne esce in francese, per la cura di Lydia Chweitzer. Quel romanzo che celebra la dissipazione, in clima punk, conquista: viene tradotto in inglese nel 1984 e in italiano, nello stesso anno, in due versioni, Mondadori (per la cura di Serena Vitale), poi dimenticata, ed E/O (a cura di Ljudmila e Lila Grieco, edita fino al 1991).
La gara a riconoscere padri, padrini e figli del misterioso M. Ageev è memorabile: chi lo crede il precursore di William Burroughs (per entità visionaria) e di Anthony Burgess (per la critica virulenta alla società civile), chi un seguace dell'oppiomane Thomas de Quincey. In realtà, il Vadim forgiato da Ageev pare nato da una costola di Oblomov (il fascino del tedio), ha sniffato il sottosuolo di Dostoevskij, s'è galvanizzato leggendo i romanzi psichedelici di Andrej Belyj. John Updike ne scrisse sul New Yorker, con sfarfallio di elogi: «Il misticismo slavo mostra qui un volto sinistro, anarchico... mi ricorda l'eccentrica precisione di Nabokov».
Nikita Struve, studioso e traduttore di cose russe, sodale di Ivan Bunin e Aleksandr Solzenicyn, prese sul serio l'intuizione di Updike. In uno studio, edito in rivista nel 1985, procedendo per allusioni e intuizioni, scrisse che M. Ageev era in realtà Vladimir Nabokov. Negli anni Trenta, in effetti, Nabokov - che pubblica, tra l'altro, Re, donna, fante, L'occhio, Gloria, Risata nel buio - preferiva celarsi in una selva di pseudonimi, il più noto dei quali è V. Sirin. L'ipotesi di Struve, comunque, fu incenerita dal figlio di Nabokov, Dmitri, e, in Italia, da Cesare G. De Michelis. Nell'edizione di Novel with Cocaine attualmente edita da Northwestern University Press, l'identità dell'autore resta immacolata, «nessuno è ancora riuscito a identificarlo»; la voce Wikipedia in lingua inglese fa sua la proposta della Chweitzer: M. Ageev sarebbe tale Mark Levi (mai nome fu più anonimo), ebreo russo, traslocato in Turchia durante la Rivoluzione, capitato, pare, pure in Germania. Risulta anche una data di morte - 5 agosto 1974 -, accaduta a Erevan, in Armenia, allora sotto giogo sovietico.
C'è materia per romanzieri. Per i lettori, invece, resta il romanzo, recuperato con genio da Gog (pagg. 220, euro 16) in una nuova traduzione (a cura di Vittorio Bonino), con uno scritto di Ernesto Valerio che invita, semmai ce ne fosse ancora bisogno, alla lettura, anzi, alla venerazione di questo piccolo libro di culto.
In una Russia metropolitana e vitalista («I viali erano come gli uomini: simili in giovinezza, mutavano gradualmente a seconda di ciò che si agitava in loro») gli amori appaiono, come coltelli, e svaniscono («Zinocka impediva all'animale di superare l'uomo... Non la rividi mai più.
Mosca è grande, e ci abita moltissima gente»), la vita si fuma, con avidità, e se si è scissi dalla Storia, ribelli all'imperialismo ideologico, è inevitabile cercarsi e mutilarsi, tra droghe e «grumi di amare lacrime non piante». L'uomo che cade: ecco ciò che è degno di romanzo. Non azzardatevi a rialzarlo. Per lui - per noi - tra pavimento e Paradiso non c'è differenza.
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