Il Festival di Salisburgo che in questo tormentato anno ha festeggiato la sua centesima edizione, non ha dimenticato gli artisti che hanno segnato i primi leggendari vent'anni di vita. Lo ha fatto dedicando strade e piazze ai più famosi (Arturo Toscanini, Stefan Zweig, Hugo von Hofmannsthal) ed ora incastonando nel tessuto della splendida cittadina festivaliera, come un Pavimento della Memoria, 28 «pietre d'inciampo» davanti all'ingresso della Haus für Mozart. È un cenotafio per musicisti, cantanti, registi e attori che presero la via dell'esilio dopo l'annessione nazista dell'Austria nel 1938 o che furono assassinati nei campi di sterminio. Sulla Max Reinhardt Platz di Salisburgo le ventotto «pietre d'inciampo» allineano nomi celeberrimi come quello del direttore tedesco Erich Kleiber, che reagì come Toscanini: con il peso dell'autorità cancellò ogni concerto nella madrepatria e nei territori occupati dai nazisti, trasferì la sua attività in Austria, condannando la persecuzione che colpiva con aggressioni fisiche e verbali, confische, allontanamenti chiunque appartenesse la cosiddetta razza inferiore.
Ci sono anche stelle luminose del canto in lingua tedesca come Lotte Lehmann, Elisabeth Schumann, Rose Pauly, Alexander Kipnis, che rimasero fino all'ultimo Festival, quello del '37, per poi trovare riparo al di là dell'Oceano. Toscanini, dopo l'annessione dell'Austria, trapiantò lo spirito europeo di Salisburgo, fondando il Festival di Lucerna, prima che l'inferno bellico precipitasse l'Europa nel sangue.
Molti membri della compagnia teatrale di Reinhardt figurano nelle pietre anti-oblio, l'assistente e scenografo Harry Horner, Ludwig Stössel, Helene Thimig e Alexander Moissi, il prim'attore ammirato dai grandi drammaturghi e scrittori espressionisti, prescelto da Reinhardt per interpretare Jedermann (Ognuno) di Hugo von Hofmannsthal, il «mistero» allegorico che inaugura ogni anno la rassegna di Salisburgo sul sagrato del Duomo. Nonostante fosse battezzato nella natale Trieste, educato nella lingua paterna albanese e in quella greca, poi in quella italiana e tedesca, bastò definire Moissi «ebreo» per ottenere la cacciata da Salisburgo del maltollerato attore dalla pronuncia mediterranea. Ora dominava il Mefisto di regime: Gustav Gründgens. In seguito venne spesso in Italia, recitando in italiano con la Compagnia di Wanda Capodaglio, uno Jedermann sontuoso nel cortile di Sant'Ambrogio a Milano. Morì repentinamente nel '35 a Vienna, dove le sue esequie non ebbero ufficialità, ma l'alto suggello morale di un omaggio musicale eseguito dal primo violino della Filarmonica di Vienna, Arnold Rosé e dal celebre direttore d'orchestra Bruno Walter (che emigrerà in America). Rosé aveva sposato la sorella di Gustav Mahler, Justine. La loro figlia, Alma, violinista affermata e artista ospite del Festival salisburghese, venne catturata in Francia dove suonava per sostenere il padre esule a Londra. Assegnata dalla famigerata «Bestia» di Auschwitz, Maria Mandel, all'orchestra femminile del campo di morte, morì nel '44, forse a causa di cibo avvelenato. Sul suo cadavere il dottor Mengele ordinò un prelievo spinale, tanto che una compagna sopravvissuta sintetizzò: «Ebbe Gustav Mahler alla sua culla e Josef Mengele alla sua tomba».
Destino tragico che toccò a un altro membro del celeberrimo Quartetto Rosé, il secondo violino Julius Stewka, ucciso con tutta la famiglia a Theresienstadt. Il vecchio Rosé, vedovo e senza figlia, continuò a suonare sotto le bombe della battaglia d'Inghilterra alla National Gallery e alla Wigmore Hall insieme al violoncellista Friedrich Buxbaum, anch'egli espulso dalla Filarmonica, dall'Opera e dal Conservatorio di Vienna. Quando Buxbaum andò a sentire la Filarmonica in tournée a Londra dopo la guerra, lasciò un amaro messaggio agli ex-colleghi: «Cari amici, sono molto contento di essere stato con voi. Il suono era puro completamente purificato dagli ebrei».
Fra le pietre della memoria compaiono figure che furono di casa alla Scala, a Roma e nelle prime edizioni del Maggio musicale fiorentino anteguerra, come il regista Lothar Wallerstein, che fuggì dalla Gestapo che veniva a prenderlo sul palcoscenico della Staatsoper viennese dove aveva guidato settantacinque nuove produzioni nei periodi di Richard Strauss, Franz Schalk e Clemens Krauss, riparando in America, via Italia e Olanda.
Un caso emblematico di rimozione del dolore fu quello di Margherita Wallmann, ballerina e poi coreografa con Reinhardt e Krauss, moglie separata del presidente della Filarmonica di Vienna Hugo Burghauser (altro esule a New York), fuggita come Kleiber a Buenos Aires. Pochi o nessuno di quelli che oggi irridono ai suoi tanti spettacoli scaligeri da regista - magari solo per aver sentito dire che erano colmi di mimi e bandiere, attribuendo la sua massiccia presenza nei cartelloni al solo fatto che era l'amica del gerente di Casa Ricordi, Guido Valcarenghi - e nemmeno i lettori delle sue bizzarre e interessanti memorie sapevano che l'Olocausto si era abbattuto sui suoi genitori, uccisi a Bergen Belsen.
Secondo Billy Wilder, Hiltler aveva (ri)fondato Hollywood. Lo stesso si può dire per la Metropolitan Opera di New York e per i maggiori teatri del Nuovo mondo, che beneficiarono dei migranti artistici per necessità. Per chi rimaneva in Europa le speranze erano appese al filo delle Parche, come accadde al mezzosoprano ungherese Rosette Anday, sposata ad un avvocato «ariano» che non divorziò come spesso accedeva per salvarsi la pelle e riuscì a nasconderla per sette interminabili anni allo zelo dei «volontari carnefici di Hitler» (come il titolo dello sconvolgente libro di Daniel Goldhagen).
Rosette, protetta dallo stato coniugale «misto», ebbe almeno una soddisfazione concessa a pochissimi superstiti, quella di tornare al proprio lavoro, a Salisburgo, dove sul palcoscenico della Festspielhaus prese parte a un celebre allestimento di Arabella di Strauss, nel ruolo secondario della contessa Waldner.
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