Roma, «l'enorme ibrido», come la definiva Cristina Campo, i suoi mali non li sa nascondere. È un continuo incidente mortale presso cui si affollano i curiosi, ai quali, con incomparabile cinismo, la città chiede di pagare il biglietto. Giovedì la massima istituzione musicale romana, l'Accademia nazionale di Santa Cecilia, riapriva le sue sale al pubblico dopo lo sfibrante purgatorio di musica in streaming imposto dal Covid, dopo la messa in cassa integrazione degli orchestrali, dopo l'annuncio (che i «suoi» musicisti hanno appreso dai giornali: i potenti non mancano mai di muoversi furtivamente, a ogni scalino di carriera li tormenta la colpa) del direttore musicale, Antonio Pappano, che nel 2023 abbandonerà l'incidentata orchestra romana che ha pilotato per quindici anni per assumere il comando della London Symphony Orchestra.
Per chi come me segue l'orchestra fin da ragazzo, quando si esibiva all'Auditorium Pio, prima che Luciano Berio e Renzo Piano la tumulassero nei «bacarozzi», come li chiamano i romani, del Parco della Musica, la riapertura non era solo un appuntamento musicale, ma civile e sentimentale. Vedere ancora una volta «l'enorme ibrido» esibire apertamente i suoi visceri enfi, le sue membra lasche e pallide, e tanto più decadente là dove si pensa che la lebbra meno lo colpisca: nell'arte, nella cultura, aveva un fascino irresistibile. Se a Milano la Scala riapre con invocazioni a Toscanini, la partecipazione con i fuoriclasse dei Wiener Philharmoniker, a Roma gli spettatori sciamano silenti e a capo reclino, mascherinati e come vitelli al macello, nella sala principale da 2800 posti, di cui ne verranno occupati meno del dieci per cento, non aspettandosi nulla né dalla musica, né dall'evento, che infatti, nei termini spettacolari abituali, non c'è.
Una fugace apparizione del Presidente dell'Accademia che, burocraticamente e quasi vergognoso, tenta di allettarci con l'imminente esibizione di un «grande direttore e una grande solista», rispettivamente il giovane Alpesh Chauhan e la pianista pugliese Beatrice Rana, che non dice nulla del programma, ovvero il Primo concerto per pianoforte di Brahms in re min. e la Sesta sinfonia di ostakóvic in si min., e si dilegua. Poi la musica, di fronte a un pubblico falcidiato dalle norme sanitarie, tuttavia non smisuratamente più esiguo di quello di altre serate, quando la pandemia era ancora di là da venire. Il direttore, lo si capisce fin dalle prime battute, non è ancora tale: è un ragazzo che sta imparando il mestiere.
Il Primo concerto di Brahms, tormentato capolavoro giovanile di cui lo stesso autore non venne mai a capo, composto e ricomposto e ristrumentato fino a saziarsene dopo aver realizzato che non ne sarebbe mai uscita la nuova grande Sinfonia tedesca, erede della Nona di Beethoven, è risultato allegoria perfetta di Roma: l'orchestra, costituita di musicisti eccellenti presi singolarmente, non è compatta; i tempi del direttore, che si occupa solo di scandire un ritmo metronomico e dare gli attacchi, sono morchiosi e in alcuni punti letargici, e il primo movimento, che dovrebbe scatenare una tempesta nel cuore, o perlomeno una sorpresa, è l'immagine sfigurata di un augusto rudere su un'acqua torbida. Un piccolo miracolo - poiché siamo a Roma, supponiamo in parte involontario - avviene nello stupendo Adagio del concerto, uno dei pochi composti da Brahms, che diffidava del pathos del tempo lento come di uno sfiorare troppo da vicino la morte, e cioè quando pianista e orchestrali intonano quella che ci è parsa una trenodia, un lamento funebre. Finalmente in equilibrio i piani tra soli e tutti, abbiamo avuto la sensazione che, attraverso le eterne note di Brahms, i musicisti abbiano espresso le parole di un racconto di Cechov: «quella tenue bellezza del dolore umano che soltanto la musica, pare, sa rendere».
La critica, riferito questo apice, dovrebbe pudicamente concludersi qui, perché il Finale brahmsiano come, soprattutto, la Sesta sinfonia del sovietico sono state la dimostrazione di un'impotenza che il confronto con la versione incandescente di Leonard Bernstein impone di non commentare. Eppure, per motivi che il lettore avrà intuito, il concerto è stato commovente e, come di rado capiterebbe altrove, di nuovo abbiamo provato innocente tenerezza per un'orchestra di primissimo rango colpita da troppi mali, e non parliamo solo di virus.
Direttori e primi violini, pur valenti, che ne fanno un ponte per varcare i loro oscuri abissi di carriera; immaturi maestri cui viene affidata come a una baby-sitter il bambino riottoso; solisti di fama come Argerich, Lupu o Bronfman che a Santa Cecilia trascorrono trasognate vacanze romane. L'«enorme ibrido» non oppone la minima resistenza.Ma questi concerti di primavera restanti, non perdeteveli, la «tenue bellezza del dolore umano» difficilmente la troverete altrove, tanto più pura perché inaspettata.
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