Solo chi era giovane negli anni '90 può capire appieno lo sconforto che lascia la morte prematura (e lo dico da coetaneo) di Claudio Coccoluto. Nell'ultimo decennio del secolo XX, infatti, abbiamo assistito agli ultimi sussulti del rock emessi dai Grunge di Seattle, con chitarre, giacche di lana a scacchi e jeans sdruciti. Il resto, tutto il resto, è stato elettronica in molte variabili, dalla scena cool di Bristol all'house di Detroit, dal chill-out e indietronica che prevedevano la possibilità di ascolto rilassato alla sperimentazione incrociata con l'avanguardia minimalista, ovvero l'elettronica autoriale di tipi come Aphex Twin.
Ogni genere musicale, per legittimarsi, ha bisogno di acquistare valore intellettuale, però la dance music degli anni '90 è stata soprattutto una endless night di bit, acidi, Mdma, luci e stravolgimenti che hanno cambiato il rapporto tra suono e pubblico. Ogni concezione di spazio e tempo tradizionale giunta fin lì è entrata in crisi, a cominciare dal ruolo del musicista, senza più un volto, nascosto dietro le macchine, abbarbicato tra consolle e laptop, non più una rockstar da adorare ed emulare ma lo sciamano che azionava il rito collettivo dove la gente diventa protagonista, un tappeto di mani, teste, corpi mossi senza rincorrere uno stile preciso (come accadeva ne La febbre del sabato sera e per tutti gli anni '80) ma uniti al dj in una sola e indivisibile performance. Lo testimoniano ad esempio le fotografie di Andreas Gursky e Massimo Vitali, fermi-immagine sulla generazione del ballo/sballo, la prima completamente postideologica, che dopo quelle notti ha perduto il collante che la teneva insieme.
Accanto alle discoteche classiche, a Ibiza e sulla Riviera romagnola, con la Dj Culture sono subentrati altri luoghi, nelle periferie cittadine, le zone di archeologia industriale, ma anche in aperta campagna o spiagge fuori stagione per immensi e infiniti rave, spesso ai bordi della clandestinità, ove si conveniva attraverso il lascia passare (in pochi avevamo il cellulare e comunque non c'erano gli smartphone). Oltre alla fine delle ideologie, noi allora trentenni ci trovammo da un momento all'altro nel mondo globale e proprio questo tipo di musica (che alcuni rifiutarono perché non suonata) eliminò qualsiasi barriera linguistica e culturale. Mentre la rockstar parlava solo inglese, il dj poteva essere di ogni dove, anche italiano, ce ne erano tanti bravi e Claudio Coccoluto era il più bravo di tutti.
Ora che le postazioni sono state spente, ora che i Daft Punk hanno detto basta, che divertirsi è un delitto ci lascia Cocco ed è come dire definitivamente addio alle notti più assurde della nostra giovinezza.
Forse pochi sanno che Claudio amava l'arte: compose il sound per un video di Mario Consiglio, pop-artist di Perugia per una mostra ormai quasi vent'anni fa. E aveva una segreteria telefonica molto divertente, con lui che canticchiava un attacco di Mina, «io non ti conosco, io non so chi sei», e così non gli lasciavi il messaggio.
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