Scott Walker, l'antipopstar che canta Claretta e i dittatori

Il cantautore americano, divo negli anni '60, ha rifiutato notorietà e successo. Ma sforna un capolavoro dietro l'altro. Come il nuovo cd

Scott Walker, l'antipopstar che canta Claretta e i dittatori

Le carriere dei musicisti spesso procedono sulla traccia classica: esordio arrabbiato, originale e in certi casi fulminante; tentativi più o meno riusciti di «trovare nuovi percorsi»; e infine un redditizio ritorno ad allori e cliché, spesso con il titolo di venerato (ancorché banale) maestro. Pochissime le eccezioni.
Una di queste ha il nome di Scott Walker. Il cantautore americano, musicista per musicisti, totem occulto di buona parte del rock d'avanguardia tra Usa e Inghilterra, ha iniziato a metà anni '60 come idolo musicale commerciale, più o meno per ragazzine. Scott (il cognome vero è Engel) era il bel tenebroso dei Walker Brothers, la risposta americana ai Beatles, quelli di The sun ain't gonna shine anymore. Alfieri di un pop Usa che derivava da Hank Williams e che sarebbe sfociato nei Bee Gees. Scott, caschetto biondo, occhiali scuri, e una insospettabile voce baritonale, fu vezzeggiato da media e fan come ogni rispettabile popstar. Ma nel 1967, sul più bello, decise senza spiegazioni di mollare gruppo e riflettori. O meglio, una spiegazione c'era: aveva deciso di chiudersi in convento per imparare i canti gregoriani.
Seguirono quattro dischi solisti d'avanguardia: Scott (1967), Scott 2 (1968), Scott 3 (1969) e Scott 4 (1969) in cui Walker, nato in Ohio, ma da sempre affascinato dalla cultura europea, faceva i conti con il repertorio di Jacques Brel tradotto in inglese da Mort Shuman. Dischi che ben più tardi sarebbero diventati di culto per una generazione di rock alternativo. Da Brian Eno a Sting fino a Damon Albarn e gli Smiths, molti artisti inglesi andarono a scuola da questo americano atipico. I Radiohead addirittura avevano in repertorio un filone di canzoni che chiamavano «Scott Walker songs». Tra queste la superhit Creep.
Dopodiché il blocco creativo. Il sociopatico e inquieto Walker rimase incerto per buona parte degli anni '70. Decise di provare una nuova unione con i vecchi compagni, ma dopo 3 dischi realizzati tra il '75 e il '78, il tentativo sfumò, causa perdita di ispirazione e tiepido successo commerciale.
Da quel momento in poi Walker virò in maniera decisa verso l'avanguardia, e una sorta di ermetismo scuro, postmoderno, sperimentale. Niente concerti, pochissime interviste, ma una serie di ardui capolavori su disco, scolpiti in un corpo a corpo con materia sonora, canora, verbale. Sempre più hidalgo, sempre più musicista per musicisti, Walker, con Climate of Hunter (1984), Tilt (1995), The Drift (2006). Dischi circonfusi dal rispetto degli addetti ai lavori, dall'amore dei fan, dal timore e tremore dei non connoisseurs.
E da qualche giorno lo ritroviamo con un disco il cui titolo è tutto un programma. Bish Bosch. Il primo termine è un'espressione slang per bitch, puttana; il secondo è un omaggio a Hieronymus Bosch, il pittore tedesco del '400, apocalittico autore del Trittico del giardino delle delizie. Ma le due parole insieme formano una ulteriore espressione slang, che significa: lavoro finito. Sei anni dopo il disco precedente Scott Walker non ripiega, non si ripete. Non concede niente al revival, alla nostalgia, alla retromania. Spinge al massimo sulla sperimentazione, con testi che passano dall'evocazione di antichità mitologiche a riferimenti alla biologia molecolare; dalle citazioni bibliche a quelle dei film di Hollywood; dalla violenza agli odori sgradevoli.
La canzone The Day The Conducator Died è dedicata alla figura di Ceausescu, ulteriore esempio dell'interesse di Walker per i dittatori di ogni epoca. Nel disco The Drift c'era una canzone dedicata alla morte di Claretta Petacci. In un disco del 1969 un brano era dedicato a Stalin.

Il tutto è legato da un flusso di coscienza continuo, che trasporta sedimenti di ogni genere: frammenti e impressioni, oggetti culturali e sensazione corporali, suoni inediti ottenuti in maniera artigianale (nel disco precedente c'era un brano che usava come percussione un pezzo di carne di maiale) e aperture rock quasi canoniche. Anche brevi e imprevisti momenti di silenzio, che acquistano un peso musicale inaspettato. Bish Bosch è un disco inclassificabile, come il genio che lo ha prodotto.

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