"Scrivo con disciplina e nel silenzio. Solo con il mio cane"

L'autore di "Patria" svela lati inediti di sé e del suo lavoro in "Il rumore di quest'epoca"

"Scrivo con disciplina e nel silenzio. Solo con il mio cane"

Il rumore di quest'epoca (Guanda, pagg. 332, euro 19) svela un altro Aramburu, o meglio, i molti altri lati dell'autore di Patria, rivelati da lui stesso in una serie di articoli domenicali scritti per El Mundo; e sono tutti aspetti che, in qualche modo, suonano piacevolmente coerenti rispetto al romanzo ambientato a San Sebastián, la città dove è nato nel 1959, nel cuore dei Paesi Baschi. Chi ha amato Patria (e sono moltissimi: l'anno scorso ne è uscita anche la versione in graphic novel e Hbo ne ha tratto una serie tv) non rimarrà deluso da questi «textos», anzi: scoprirà, per esempio, che il piccolo Fernando a 8 anni beveva vino, e questo lo ha «immunizzato» dal rischio dell'alcolismo da adulto; che, come tanti bambini di un'altra epoca, è stato «educato a schiaffoni» (senza scandalizzarsene); o quanto conti l'aglio nella cucina, quanto l'immagine del matriarcato sia fasulla, quanto lo scrittore spagnolo sia attratto da internet e quanto tifi la Real Sociedad...

Il libro nasce da articoli scritti per El Mundo: c'è un legame, secondo lei, fra giornalismo e letteratura?

«La letteratura e il giornalismo formano un matrimonio stabile, a condizione che arrivino a una sorta di accordo. La funzione primordiale della letteratura non è informare; perciò deve accontentarsi di alcuni spazi determinati all'interno di un giornale, lì dove il trattare dei temi di interesse collettivo sia compatibile con il buono stile della scrittura».

Molti testi sono dedicati alla scrittura e ai suoi rituali. Ha anche lei dei riti?

«Le assicuro che non c'è nulla di affascinante nel mio lavoro alla scrivania. Sono uno scrittore disciplinato, che ce la mette tutta ogni giorno, dal lunedì alla domenica; che si sottopone a orari, che passa molte ore da solo e che ringrazia ogni giorno, ogni ora, ogni istante per il fatto che possa dedicarsi anima e corpo alla letteratura».

Scrivere è una attività che le dà sempre gioia? Ed è legata per sua natura alla solitudine secondo lei?

«Scrivo nella solitudine e nel silenzio, in uno spazio di intimità al quale ha accesso soltanto il mio cane. La scrittura non mi risulta facile e ho momenti di sterilità creativa, nei quali sembra che il mio cervello si sia dichiarato in sciopero. Poi però il tempo passa e giunge il giorno in cui il lungo impegno culmina nel punto finale di un'opera... Il piacere che mi dà quel momento non lo scambierei con nessun altro: raggiungerlo mi aiuta a sopportare l'asprezza del lavoro».

Pensa che ogni romanzo sia «autofiction»?

«Per quanta immaginazione metta nel suo lavoro, ciò che nessun romanziere può fare è perdere di vista la propria esperienza vitale mentre scrive. Quell'esperienza, unita alla memoria, è un baule pieno di ricordi, aneddoti, personaggi, immagini, sensazioni e tante altre cose che possono servire per scrivere romanzi e, in realtà, ogni specie di libri».

Quali sono i suoi autori e i suoi libri, quelli che l'hanno formata e ispirata?

«È ovvio che gli autori letti nell'adolescenza, che fossero migliori o peggiori, lascino di solito una traccia più profonda. Ignoro fin dove arrivi l'influenza che hanno potuto esercitare su di me altri scrittori, non possiedo un apparecchio per misurare questo genere di cose... Tuttavia, non farei fatica a enumerare una lunga lista di nomi da cui mi piacerebbe aver ricevuto un qualche tipo di influenza o di insegnamento: spero che mi sia rimasto addosso qualcosa di Kafka, di Camus, di Cervantes, di Dostoevskij e di tanti e tanti poeti».

Da lettore si definisce «onnivoro»: pensa che il rifiuto estetico di un autore per pregiudizio, a causa di posizioni ideologiche molto distanti dalle proprie - fa gli esempi di Céline, Heidegger e Neruda - sia una forma di non libertà di pensiero, di intolleranza?

«Non mi sono indifferenti le idee e i comportamenti degli autori, per quanto non siano impliciti nei loro libri; e, a volte, non posso evitare di professare per alcuni una profonda antipatia. Questo però non è in contrasto con il fatto che abbiano potuto scrivere libri straordinari, dei quali non desidero privarmi. Un libro non è nulla senza una lettura e, nelle mie letture, sono l'unico a comandare. Penso, inoltre, che se voglio fare uso del mio diritto di replica devo conoscere le ragioni del mio oppositore, e questo costringe a leggere e studiare il suo discorso».

Qual è il legame fra parole e libertà? Scrive che «siamo fatti di parole»...

«A mio giudizio, il legame tra parole e libertà è molteplice. Le parole ci consentono l'accesso alla conoscenza, servono alla comunicazione, al riso e alla bellezza, ci aiutano nella creazione di criteri di giudizio autonomi, ci facilitano la rappresentazione e la descrizione del mondo e veicolano l'esercizio della critica. Chi non ha una voce propria dovrà rassegnarsi al fatto che altri parlino per lui e dettino le sue azioni».

In uno dei suoi articoli sull'Eta scrive che la lotta armata «cancella l'uomo». Può spiegare perché?

«Il terrorismo cancella la dignità delle vittime: in questo modo le rende colpevoli, ed evita al terrorista problemi di coscienza. Ricordo che, quando l'Eta assassinava un cittadino, alcune persone si affrettavano a dire della vittima: Qualcosa avrà fatto, ritenendo che, indipendentemente da chi si trattasse, meritasse la punizione ricevuta. Si pratica dunque la violenza con la convinzione di star facendo qualcosa di buono, perché la vittima ostacolava la realizzazione di un progetto che è di per sé giusto, desiderabile, necessario. Ed era molto comune che i sostenitori del gruppo armato reificassero i loro nemici, riducendoli a semplici obiettivi, e perfino che li animalizzassero, come si faceva con gli agenti di polizia, che venivano definiti txakurras, cani, in basco».

In che senso la lotta armata è «totalitarismo» e come agisce sulla mente dei suoi adepti? Anche in questo il ruolo della parola è fondamentale?

«L'opzione delle armi è sempre impositiva: annulla la possibilità di regole comuni e di un giudice esterno e prevede l'eliminazione fisica del rivale o del dissidente. Essa però ha bisogno di un supporto ideologico e di una morale, che persuadano l'adepto di avere ragione e di stare facendo qualcosa di positivo, nel momento in cui spara».

Pensa che sia ancora in atto un tentativo di cancellare i «ricordi scomodi»? E non solo nei Paesi Baschi...

«È una reazione normale. Alla gente piace essere identificata con il successo e con il prestigio. È più piacevole provenire da un Paese che spicca per la sua arte, per i suoi successi nello sport, il suo sviluppo tecnologico e il suo benessere sociale, che da un altro in cui si uccide, si distrugge, si soffre la fame e non funziona nulla».

I familiari delle vittime che ha avuto occasione di incontrare come hanno reagito leggendo Patria? E lei che cosa ha provato?

«I collettivi di vittime del terrorismo e alcune vittime che ho potuto conoscere di persona hanno accolto con gratitudine il mio romanzo. C'è stato chi ha confessato di non essere in grado di leggerlo per i ricordi dolorosi che il mio libro risvegliava, e lo capisco. In questi ultimi anni ho vissuto momenti molto emozionanti, in cui ho ricevuto stupende lezioni di dignità e integrità».

Scrive che nel «rumore del mondo» di oggi le piacerebbe sentire «una voce serena, collegata a una mente lucida»... Era vero quando lo scriveva, pensa che sia ancora più vero in questo momento?

«Questo è stato vero sempre, non soltanto oggi. È già nel Beatus ille di Orazio.

Uno spera che la cultura, oltre a dargli piacere e conoscenza, gli trasmetta serenità e gli insegni a morire bene. Ma forse tutto questo è soltanto un tributo preteso dall'età... A me, in gioventù, la serenità interessava piuttosto poco».

(Traduzione di Bruno Arpaia)

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