Se il critico "spia" raccoglie le prove per capire l'opera

Un errore di Verga lascia intendere l'isolamento, i risvolti di Sciascia condannano la cultura usa e getta

La critica letteraria arte inquisitoria che implica castelli nel cielo e labirinti costellati di mostri, come sapeva Borges richiede l'esigenza del chirurgo e l'avventatezza del matador. Di un'opera bisogna cioè conoscere il cuore di vetro, il punto di distruzione; dello scrittore le fragilità, gli infingimenti, le ipocrisie. In fondo, la sapienza critica chiede il coraggio degli umili e una certa tensione al cinismo. Fino all'altro ieri, invece, i critici, avvoltoi che si credono leoni, hanno danzato sul cadavere, usando il corpo morto del grande autore come trono su cui ergersi, urlando, in cerca di fama. Vile esercizio di intelligenza impropria. Oggi, quasi tutti i critici ruminano sui giornali in attesa che un editore importante dopo anni di canoniche leccate gli pubblichi il romanzo nel cassetto, spesso laccato, dimenticabile. Salvatore Silvano Nigro, a contrario, riesce a fare della critica un'avventura, uno stile, pretende il lettore complice e più che con Giorgio Manganelli a cui necessariamente rimanda dialoga, parere mio, con le Altre inquisizioni di Borges. L'esito, però, è opposto: da una parte (Borges) l'occasione bibliografica è puro pretesto narrativo; qui (Nigro) la natura narrativa dei brevi saggi è funzionale alla ricerca, allo scavo nei tunnel del testo, fino al punto di non ritorno, al verbo ultimo, all'abracadabra che dischiude l'altro mondo di un libro, il solo, infine, davvero fondamentale.

Così, un biglietto di Giovanni Verga in risposta al telegramma inviatogli dal Giornale d'Italia (gli si chiedeva di «manifestare suo sentimento intorno significato opera Pascoli»), ne rivela l'indole remota. «Auguriamoci anzitutto che guarisca», risponde, secco, il sommo scrittore. Peccato che il Pascoli era già morto. Verga morirà esattamente vent'anni dopo: eletto Senatore del Regno da Vittorio Emanuele III, aveva smesso di scrivere da troppo tempo. «Quell'augurio tutto d'impeto, e così asciutto, è un'icona letteraria. Dice tanto sulla parete di silenzio e di assenza dietro la quale Verga si era ritirato», scrive Nigro. Il saggio che dona il titolo alla raccolta, Una spia tra le righe (Sellerio, pagg. 358, euro 18), è emblematico del sistema critico di Nigro: si parte dalla vicenda di Antonio Pérez, «principal ministro di Stato» sotto Filippo II, dotato d'impareggiabile scaltrezza, spia, colto nel tradimento, passando tra Giambattista Marino e Javier Marías, per definire un'epoca, il Barocco. Bisogna leggere tra le righe: Nigro cita Camillo Baldi, letterato, filosofo, che «teorizzava... una fisiognomica testuale», era cioè «convinto che non meno nella scrittura che nelle facce rilucesse e si effigiasse il pensiero e la mente delle persone». Insomma: sei come scrivi, il corpo si rispecchia nel corpus, di un viso va compresa grammatica. Questa, infine, è la formula per leggere questo libro, florilegio di scritture ferine, che s'insinua tra i frantesi, gli scherzi della sorte, i trompe-l'oeil di vite votate alla finzione, le pose. Troppo facile mandare il lettore ai testi sul Manzoni l'occhio microscopico di Nigro si ferma sulla stratificazione narrativa dei Promessi sposi e sui rapporti tra Don Lisander e Francesco Gonin, l'illustratore, dacché il più grande romanzo della letteratura italiana è stato pensato in modo che scritto e figurato fossero parti inseparabili di un'unica testualità.

Si vada, allora, a scavare tra i risvolti scritti da Leonardo Sciascia per Sellerio, che fondono l'arguzia editoriale all'energia polemica, agita contro il «circolo vizioso (veramente e vanamente vizioso) del best-seller: il libro la cui precipua qualità stava nel fatto che era dato per molto letto e che era dunque indispensabile leggere».

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