Accade che i capolavori nascano così, con uno che ti sputa in faccia. James Agee quest'anno compirebbe 110 anni, è morto a 45 e il Pulitzer postumo - nel 1958, per Una morte in famiglia - è il sigillo di un genio ingenerosamente massacrato dall'idiozia americana. Fece di tutto, quest'uomo setacciato dalla sorte, in affanno di fama: pubblicista di talento - per Time e per The Nation -, si sposò tre volte, ricavando quattro figli (il primogenito, Joel, cresciuto dalla seconda moglie, Alma, che a James preferì lo scrittore tedesco Bodo Uhse, ha tradotto in Usa l'opera di Elias Canetti, Friedrich Dürrenmatt, Rainer Maria Rilke), scrisse due film, La regina d'Africa (per John Huston, nel 1951) e La morte corre sul fiume (per David Grubb, nel 1955, con un immenso Robert Mitchum), che gli consentirono pochi soldi e troppa fatica.
Fu la rivista Fortune, dopo avergli commissionato il lavoro, a sputare in faccia a James Agee. Lo scrittore è incaricato di fare un reportage tra i mezzadri dell'Alabama. Accetta. Dal viaggio ritorna con una specie di Moby Dick sul petto: un libro eccessivo, eccezionale, eccentrico. James Agee capisce di aver trovato la propria Balena Bianca narrativa: lì, nelle sgraziate pianure del sud, lo scrittore caracolla come Isaia, si spossessa («Sembra a me curioso, per non dire osceno e affatto terrificante, se accade che un'associazione di esseri umani riuniti dal bisogno e dal caso, e a fini di profitto costituitasi in azienda, un organo di giornalismo, si metta a spiare nell'intimo le vite di un gruppo di esseri umani senza difesa e spaventosamente deprivati, una famiglia rurale indigente e ignorante, allo scopo di esibire la miseria, lo svantaggio e l'umiliazione»), spappola i generi (vaga tra lirismo e neorealismo, imbarcando - lo dice lui - «William Blake, Louis-Ferdinand Céline, Gesù Cristo, Sigmund Freud», con una lingua che mescola John Donne e James Joyce - lo dice il traduttore, Lucio Fontana -, è il padre illustre di David Foster Wallace e di William T. Vollmann - lo dice il prefatore, Luca Briasco).
Sia lode ora a uomini di fama sorge così, come una costola dal libro biblico delle Cronache. Naturalmente, Agee manda al diavolo quelli di Fortune, viene rifiutato da un tot di editori, finché nel 1941 Houghton Mifflin si prende il rischio di pubblicare quell'oceano di oltre cinquecento pagine. Il fiasco è micidiale - pare che il libro abbia venduto 600 copie - e James Agee si getta nel giornalismo cinematografico. Adora Charlie Chaplin, per cui scrive una sceneggiatura, The Tramp's New World, ritrovata e pubblicata nel 2005. Questo scrittore nato come poeta, sotto la benedizione di Archibald MacLeish (l'esordio, nel 1934, poco più che ventenne, con Permit Me Voyage: vi prego, traducetelo presto...), torna al romanzo nel 1951 con un libro breve, lirico, mirabile, La veglia all'alba, accolto tra cruda indifferenza e consueta incomprensione. Col senno di poi, Sia lode ora a uomini di fama (il Saggiatore, pagg. 520, euro 25), che alterna la denuncia sociale al poema cosmico («L'Europa fiorita di guglie è in luce, alla metà del suo giorno, espone le sue città in altorilievo, la sua facciata di mondo spiralato d'acciaio; il globo atlantico riluce brunito, strisciato di navi, segnato di piste e strade d'aria, così acceso che acceca»), con modelli precisi (Henry David Thoreau e Melville), è la pietra miliare di un canone letterario americano altro, che ai palazzinari del romanzo sostituisce i grandi profeti del Sud, i narratori della tradizione e dell'apocalisse, da Thomas Wolfe a Allen Tate, da Flannery O'Connor a Robert Penn Warren, Carson McCullers e Cormac McCarthy. Una tradizione narrativa insolente rispetto ai canoni vigenti e vincenti, che vive nell'incanto della carne, che odora di sangue.
James Agee, nel viaggio in Alabama - cioè, alle estremità dell'uomo - si fece scortare da Walker Evans, fotografo. Le immagini dei campi, dei lavoratori, delle case, sono cruente. Quegli uomini, folgorati nel senza tempo, sembrano i muziki raccontati da Dostoevskij e Tolstoj, creature in perpetuo esodo da sé, sotto la carezza o il pugno di Dio, istoriati sull'elsa di una frugale speranza, già fuggita, sprecata. Walker Evans fotografò anche lui, James Agee. «Era assai possente... nel movimento sgraziato... le mani erano grandi, lunghe, ossute, leggere e non curate»: così il fotografo fissa lo scrittore. Nella fotografia, Agee ha il viso largo, gli occhi semichiusi. Sembra fotografato a testa in giù; sembra un uomo che ha vissuto almeno tre vite ed è risorto ogni volta. Ricordi arcaici lo cicatrizzano all'oggi.
«Ma questi erano uomini misericordiosi, la cui virtù non è stata dimenticata», scrive Agee. La scrittura fa questo, in effetti: dona gloria agli infami, inietta nell'oro i senza nome, i perduti, viziati alla resa. Con lo spunto hai plasmato un'opera assoluta: non preoccuparti, rimarrai indimenticabile, James.
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