"Spinoza aveva Ragione a insegnarci la libertà"

Maxime Rovere racconta la vita, l'opera e il mondo del filosofo: "Non fu un martire e neanche un reietto"

"Spinoza aveva Ragione a insegnarci la libertà"

A volte basta un Ventennio per cambiare la storia di un Paese, ed è quello che è successo in Olanda, fra il 1648 e il 1672, l'epoca della ware vrijheid, la «vera libertà»: la guerra con la Spagna era finalmente conclusa, le diverse confessioni si erano unite contro il nemico, i commerci con il Nuovo mondo erano una fonte costante di ricchezza per una nazione piccola e indipendente, una Repubblica in cui si sperimentava una tolleranza eccezionale, per l'Europa dell'epoca. È nella città più fiorente di tutte, Amsterdam, che nasce, studia e inizia a filosofare Benedetto, o Baruch, o Bento Spinoza (1632-1677). «La tolleranza era un fatto, più che un'ideologia. E Spinoza traduce questa realtà in teoria politica: quando, nel Trattato teologico-politico, chiede totale libertà religiosa e istituzioni fortemente democratiche, sta indicando la direzione stessa in cui va l'Olanda. Quell'epoca dura poco più di vent'anni, ma sono abbastanza per fare sì che grandi pensatori scrivano grandi libri, e piantino i semi di grandi idee» dice Maxime Rovere, professore all'Università Pontificia di Rio de Janeiro e autore di Tutte le vite di Spinoza. Amsterdam 1677: l'invenzione della libertà (Feltrinelli, pagg. 432, euro 25).

Innanzitutto, Tutte le vite di Spinoza non è un saggio: è basato su fonti, testi, lettere e documenti ma è un romanzo storico a tutti gli effetti, bellissimo nel suo genere, un romanzo in cui i protagonisti sono Spinoza, l'Olanda del Seicento, gli ebrei scappati da Spagna e Portogallo per sfuggire alle persecuzioni, come i genitori di Spinoza, i mercanti furbissimi e ricchissimi, i rabbini litigiosi, gli scienziati e gli «intellettuali», alcuni dei quali amici e sostenitori, altri nemici giurati, di Spinoza stesso, e fra i quali si svolgono dialoghi realistici, rozzi, spassosi (come quello fra Spinoza e Leibniz). Fra gli amici, racconta Rovere, «Lodewijk Meyer, il suo amico filosofo cartesiano, che lavora sui suoi testi per renderli dei libri, insieme all'editore, Jan Rieuwertsz; Simon De Vries, che in letto di morte diventa il suo mecenate; Jarig Jellesz, che lavora con lui sulla verità, in tutte le sue forme; e Stenone, l'anatomista, l'unico che si dichiari, pubblicamente, amico di Spinoza». Non sono discepoli o seguaci: sono, anche loro, una delle tante facce dello «spinozismo», un termine che, a un certo punto, quasi sostituisce il cartesianesimo come sinonimo di razionalismo, anche se «Spinoza è il simbolo di una Ragione diversa, più aperta alle emozioni e alla comprensione». Ed è proprio lei, la Ragione, la vera protagonista del romanzo di Spinoza, un uomo che, del resto, «riteneva che la singolarità degli individui non fosse importante, e faceva del suo meglio affinché la Ragione, essa stessa, scrivesse i suoi libri». Questa Ragione, dice Rovere, «è come l'assassino in un giallo: nessuno sa chi sia e che cosa sia... Nell'Europa del Seicento, proprio come oggi, c'era chi la amava e chi la temeva, e chi avrebbe voluto controllarla: non è la storia di un gruppo di filosofi eroici che difendono la Ragione contro degli oscurantisti stupidi e superstiziosi. La Ragione è più sottile, più fragile, ed è per questo che muore, alla fine».

A Rovere piace sfatare certi miti, non solo quello della lotta della Ragione contro l'oscurantismo, anche quello, per esempio, dello Spinoza martire: «Il martire soffre per la propria fede, mentre Spinoza non ha sofferto molto, anzi, era sempre protetto da amici potenti; e poi non aveva una fede da difendere perché, per lui, la verità e la ragione trionfano da sole: non c'è bisogno di difenderle o credere in esse, come non c'è bisogno di credere nel Sole, o di difenderlo». Poi ci sono «tre leggende» sul filosofo di Amsterdam che non corrispondono a realtà: «Primo, che sia stato scomunicato dalla comunità ebraica per le sue idee; secondo, che si mantenesse lavorando lenti; terzo, che fosse una sorta di reietto, un emarginato, condannato dai poteri ufficiali». Le fonti dicono altro: Spinoza uscì dalla comunità ebraica, si interessava di ottica ma si manteneva grazie alla generosità degli amici, aveva protettori influenti. Certo, la fama di eretico lo accompagna e, da quando il Trattato viene pubblicato, anonimo, nel 1670, lo scandalo avvolge il suo nome, anche fra i «colleghi»: «La domanda è: qual è l'istituzione che deve organizzare la ricerca umana della verità? Fino al '500, in Europa la risposta è: la Chiesa cattolica. Poi, nel '600, i circoli galileiani e cartesiani, la Riforma e le guerre di religione impongono un confine rigido fra scienza e religione, entro il quale ciascuno può lavorare e pubblicare libri in pace. Ma Spinoza e i suoi amici varcano quella frontiera, perché dicono che la ragione ha una dimensione spirituale, e questo è un choc, per tutti».

Su entrambi i fronti, quello della reazione violenta e quello della Ragione, Spinoza ha ancora molto da raccontare. «Di fronte alla violenza, la tolleranza dovrebbe prendere una forma nuova, meno ideologica e più pratica. È la forma che Spinoza difendeva: gli era indifferente ciò in cui le persone credevano, mentre osservava da vicino quello che facevano». Ed è vero, Spinoza è il filosofo della Ragione, ma non quella Ragione che è uno «strumento di controllo», bensì quella che «avrebbe portato pace e comprensione nella società, chiarezza, amore per l'universo.

Una Ragione cosmica, che produce il mondo». Nel suo razionalismo, «la Ragione è amore. Bisogna tornare indietro fino a Platone, per ritrovare tanta enfasi su questa equivalenza. E tornare al proprio cuore, per comprendere che cosa significhi».

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