Venezia. Innanzitutto, l'incipit. L'esergo del nuovo film di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio è una citazione di Diego Armando Maradona - «Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male» che va benissimo anche per il regista. «Anche se nel caso di Maradona era falsa modestia, nel mio realismo».
No, non gli è andata così male.
Dieci film, un Oscar per La grande bellezza, una doppia serie tv di successo internazionale, Paolo Sorrentino è oggi il napoletano più famoso del mondo come una volta Maradona era l'argentino più amato da Napoli. Ma con un debole per Venezia: «Mi è sempre sembrata una città costruita da bambini intelligenti». Qui al Lido Sorrentino portò vent'anni fa, 2001, il suo primo lungometraggio, L'uomo in più, e c'era già, come oggi, Toni Servillo, e qui fece l'anteprima nel 2019 della serie tv The New Pope. È sulla stessa spiaggia dell'Excelsior dove girò la scena di Jude Law in costume da bagno bianco che lo incontrano i giornalisti, dopo gli applausi ricevuti all'anteprima di stamattina - tanti, anche alla proiezione serale (dieci minuti) al punto che il film entra già nella rosa dei favoriti a un Leone importante.
Film che non è la fotocopia del vissuto di Sorrentino da giovane ma che ha dentro tanto della vita del regista, fatto di ricordi tanto quanto di fantasie, pieno di sentimenti ma non di sentimentalismi, formalmente semplice, essenziale, diverso da tutti gli altri suoi film il cui invece il rigore estetico era certamente maggiore («Qui dovevo fare a meno di tutto per far parlare di più le emozioni»), È stata la mano di Dio è il racconto dei diciassette-diciott'anni di Fabietto Schisa (l'attore Filippo Scotti), stesso orecchino al lobo sinistro di Sorrentino, e stesso desiderio, nella Napoli degli anni Ottanta, di diventare regista, che - esattamente come il regista Paolo Sorrentino a quell'età - si vede la giovinezza tagliata in due, come il film, in una prima parte leggera, da genere commedia, e una seconda grave, da genere drammatico. Al di qui c'è una famiglia allargata, chiassosa, vulcanica, unita, irresistibile, e le gioie inattese come l'arrivo della leggenda del calcio Diego Maradona. Al di qua c'è la stessa famiglia che prima si incrina, dividendosi, e poi precipita nella tragedia. La cronaca è tristemente nota: entrambi i genitori di Paolo Sorrentino morirono per avvelenamento da monossido di carbonio a causa di una fuga di gas nella casa di villeggiatura, e lui - che di norma li accompagnava sempre nei weekend - sfuggì alla tragedia perché ottenne il permesso di restare a casa da solo, era la prima volta nella sua vita, per vedere giocare Maradona. Fu davvero la mano di Dio a salvarlo? «Perché ho deciso ora di scrivere e girare un film che senza fare la mia autobiografia mette insieme una serie di ricordi, di episodi raccontati e di esperienze personali? Per due motivi. Il primo: compiuti i 50 anni era il momento giusto di condividere con il pubblico una storia così privata. Mi sono reso conto che nella mia vita di ragazzo c'era una parte di felicità e una di dolore che potevano essere declinate in un racconto cinematografico che avesse un valore generale, sopratutto per i giovani: e cioè che ci può essere un futuro per tutti, anche per chi parte con un handicap (ma non so se si può usare questa parola...). Secondo: perché volevo in qualche modo spiegare ai miei figli il motivo di alcuni difetti e comportamenti che, da adulto, mi porto dietro da allora. Quando subisci un trauma come quello di perdere i genitori da giovane, per certe cose diventi adulto di colpo, per altre resti ragazzo per sempre».
Ed ecco i due toni del film. Strepitoso, fanciullesco, felliniano, giocoso, funambolico nella prima parte, o nel primo tempo, visto che in qualche modo è anche una partita di calcio. Spiazzante, cupo, angosciante, lento, maturo nella seconda.
Il cinema è come la vita: un po' si ride, un po' si chiange.
E in mezzo c'è posto per il destino, le aspirazioni, il sesso, lo sport, l'amore, la perdita, gli eroi (ci sono eroi religiosi, sportivi, famigliari, criminali... «E comunque io credo in un potere semidivino di Maradona») e naturalmente il cinema. Tanto cinema.
Cose notevoli di È stata la mano di Dio. Tutti i personaggi, a partire dall'intero parentado fino ai vicini di casa: irresistibili. Il solito Toni Servillo, il papà del protagonista («Sorrentino mi ha sempre considerato un fratello maggiore, ora mi ha promosso al ruolo di padre»). Alcune battute e certe sentenze (la sceneggiatura è firmata dal solo Sorrentino), ad esempio: «Il cinema non serve a niente ma ti distrae. Da cosa? Dalla realtà». I nudi strepitosi di Luisa Ranieri, la zia onirica, matta e musa ispiratrice. La scena, antropologicamente fantastica, delle audizioni per un film di Fellini, del quale si sente però solo la vocina... Il contesto in cui Sorrentino inserisce nel film il celebre gol di Maradona con la mano nella partita contro l'Inghilterra ai Mondiali messicani del 1986. Il fatto che pur ambientato negli anni Ottanta non c'è neppure una traccia musicale degli anni Ottanta, nonostante Sorrentino-Fabietto sia sempre in scena con il walkman attaccato alla cintura («Quando vuoi davvero lasciare spazio ai sentimenti, se non vuoi barare, devi lasciare da parte la musica»). Il fatto che, benché girato tutto a Napoli, il film non vuole dare una visione personale di Napoli («Lo fanno già in tanti, ognuno ha la sua...»). E soprattutto il personaggio - reale e vivente - del regista napoletano Antonio Capuano (l'attore Ciro Capano), che più di tutti aiuta e influenza Fabietto-Sorrentino. Domanda del primo nella scena madre del film: «Ma tu che vuoi fare cinema, ce l'hai una cosa da dire?». Risposta del secondo, urlando: «Sì». Ma senza dire cosa.
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