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Ma lo Stato è già pronto a mettere le tasse fra le ruote

Un meccanismo perverso che coinvolge lobbies, politici, burocrati e magistrati ostacola il nuovo modello

Sembra quasi una regola. È sufficiente che emerga una realtà innovativa, la quale viene alla luce perché è in grado di soddisfare una domanda e risolvere difficoltà, ed è frequente che si assista a un intervento di Stato volto a regolare e tassare: con la conseguenza in troppi casi che l'azione pubblica soffoca il nuovo settore. La vicenda della sharing economy non fa eccezione.

Benché sia una realtà assai recente Uber mosse i primi passi, in California, circa sei anni fa... in breve essa ha acquisito un notevole rilievo. Solo per rimanere nell'ambito dei trasporti, è sufficiente ricordare che già vi sono oltre mille città nel mondo in cui vi è l'opportunità di condividere con altri la propria autovettura, guadagnando qualche soldo. Ed esistono pure organizzazioni come TaskRabbit che incontrano le esigenze di chi ha bisogno di qualche consegna, di servizi di baby-setting e di un sostegno per le pulizie di casa. In altre parole, questo nuovo modo di scambiare e interagire sta invadendo settori sempre diversi.

Nonostante ciò le aree maggiormente interessate restano i trasporti e l'abitazione, ma in entrambi i casi vediamo politici, burocrati e magistrati impegnati a moltiplicare ostacoli e impedimenti. Nel caso dei servizi automobilistici l'azione regolativa è stata conseguente, innanzi tutto, all'azione lobbistica condotta dalla corporazione dei tassisti, che sono riusciti a ottenere risultati significativi. E così In Italia, ad esempio, una sentenza del tribunale di Milano ha bloccato l'app del servizio di UberPop. Eppure questa imprenditoria diffusa crea ricchezza, permette la nascita di nuovi posti di lavoro e, non ultimo, in vari casi dà un significativo contributo alla tutela dell'ambiente: si pensi anche soltanto alle emissioni di diossido di carbonio, che certo possono essere ridimensionate da un utilizzo non solo personale della propria vettura.

Dopo avere limitato la portata della rivoluzione del trasporto cittadino, oggi la politica punta ad azzoppare pure il nuovo mercato degli alloggi: il modello Airbnb, per intenderci. Il governo ha infatti introdotto nel disegno della legge di stabilità, e poi ha semplicemente accantonato (senza però eliminarla), una norma che obbliga tutti ad adottare la cedolare secca. In sostanza, mentre attualmente chi affitta un'abitazione per brevi periodi può scegliere tra pagare l'Irpef su quel reddito o optare per la cedolare del 21%, la nuova norma si propone di eliminare la possibilità di optare tra le due forme di imposizione. E in questo modo chi oggi trae vantaggio dal puntare sull'Irpef non potrà più cogliere questa opportunità. In tal modo si colpiscono quanti hanno redditi inferiori, perché chi ha entrate significative già ora ha interesse a scegliere la cedolare secca. Ma soprattutto nella nuova situazione si obbligano gli intermediari (Airbnb e gli altri) a gestire per lo Stato l'intero settore, costringendoli a operare come sostituti d'imposta e ad avere una sede anche nel nostro Paese.

A questo punto nessuno sarà davvero autorizzato a sorprendersi se, tra qualche anno, si scoprirà che l'esosità del fisco ha prodotto minori entrate. È già successo tante volte, perché l'aumento del prelievo può deprimere un settore e spingere a muoversi altrove: come avvenne con l'incremento delle imposte sugli yacht, che lasciarono la Sardegna per la Corsica.

La volontà di fare emergere l'imponibile potrebbe insomma condurre quale effetto non voluto, ma non del tutto imprevedibile a una contrazione dell'imponibile stesso. Lo statalismo è agli antipodi rispetto alla logica libertaria di questa nuova imprenditoria. E sta tentando in tutti i modi di sbarrarle la strada.

CLott

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