«Non possiamo non applaudire agli sforzi nobilissimi per rimettere in funzione una più sana concezione dell'arte da parte di un pittore che costituisce la più plausibile protesta contro l'ebbrietà cromatica». Così scriveva Carlo Carrà, uno dei padri della Metafisica, nel suo lungo articolo dedicato al francese André Derain e pubblicato nel 1921 sulla rivista Valori Plastici. A rileggere oggi quelle righe, emerge ancora una volta la conferma di quanto la storia dell'arte, dal medioevo in poi, sia una disciplina fondata sulle rivalutazioni e su un revisionismo suscettibile ai cambi di gusto e agli aggiornamenti metodologici. Difficilmente, altrimenti, si potrebbe capire lo sguardo estasiato - e anche un po' invidioso - da parte dei maestri italiani del «ritorno all'ordine» (oltre a Carrà anche i fratelli De Chirico) nei confronti di un artista che la critica del Novecento ha invece catalogato quale uno dei maggiori artefici di quelle avanguardie europee che, all'inizio del Secolo breve, rivoluzionarono forma e cromie. Derain, nella Parigi dei primissimi anni del Novecento, fu una figura cruciale non soltanto come apripista al fianco di Henri Matisse di quell'«ebbrietà cromatica» che contraddistinse il nascente movimento dei Fauve, ma anche come ricercatore del primitivismo di matrice africana che ispirò Picasso e i primi cubisti.
Chi era veramente Derain, un tradizionalista o una «Belva»? A dare una risposta a questa schizofrenia storicistica può forse contribuire la ricca mostra che all'artista di Chatou dedica fino al 31 gennaio il Museo d'arte di Mendrisio, piccola ma preziosa realtà del territorio ticinese diretta da Simone Soldini. «Sperimentatore controcorrente» è il sottotitolo dell'esposizione di 70 dipinti, 30 opere su carta, 20 sculture e 25 bozzetti teatrali, organizzata in collaborazione con gli Archivi André Derain grazie ai prestiti di importanti musei francesi, tra cui il Pompidou. Sperimentatore controcorrente lo era di certo, questo prezioso compagno di strada - e di vita - di mostri sacri della storia dell'arte che dalle sue ricerche tanto attinsero per poi ereditarne gran parte dei meriti; Matisse, soprattutto, ma anche Picasso con cui resse un intenso sodalizio fino agli anni Trenta. E Georges Braque, anch'egli introdotto da Derain al «negrismo», il primo a cavalcare l'intuizione cubista, ma che fu il solo a tendergli una mano nei momenti difficili durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Suo amico sincero, dal 1936 in poi, fu anche lo scultore Alberto Giacometti, che definì Derain «il pittore più coraggioso, colui che mi ha insegnato di più dopo Cézanne». E coraggioso fu anche quando, all'apice del clamore delle avanguardie europee, decise primo tra tutti di riguardare alla grande tradizione con una serie di capolavori di matrice «rinascimentale»; una virata antimodernista che irritò Andrè Breton (prima suo grande ammiratore) e fece gridare la critica contemporanea al «caso Derain». Eppure, proprio quella «virata nostalgica» fu vista dai pittori italiani degli anni Trenta come la vera rivoluzione che avrebbe ispirato lo stesso De Chirico, e ancora poi Gino Severini, Pietro Marussig, Achille Funi, Carlo Carrà e molti altri.
La mostra di Mendrisio, curata ed esaustiva, ha il pregio di rendere in modo equilibrato le diverse anime dello «sperimentatore controcorrente»: quella viscerale, accesa e a noi più nota dei paesaggi dell'Estaque tanto amati da Cézanne, quella immobile e meditata dei ritratti alla nipote Genevieve e dei nudi come Nu debout de face - à la nature morte, fino a quella più smaccatamente classicistica di La Clairière, ou déjeuner sur l'herbe.
Quadri, questi ultimi, commemorati da De Chirico che omaggiò Derain, «artista autentico che intuì come la pittura, nel suo vero ed eterno senso, è soprattutto un fatto di eccellenza plastica e di superiori qualità della materia».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.