Per molti decenni, nel secondo dopoguerra la storiografia contemporaneistica italiana è stata condizionata da una visione che poneva l'antifascismo e la Resistenza come miti fondanti del nuovo Stato repubblicano. Questa visione era il risultato, per un verso, dell'egemonia politico-culturale di taglio gramsciano-azionista e, per altro verso, della necessità della nuova classe dirigente di trovare una legittimazione morale. Si trattava, evidentemente, di una forzatura della realtà che comportava alcune conseguenze importanti. In primo luogo questa visione, tutta italocentrica e localistica, finiva per falsare i dati di fatto. Esaltando il ruolo del movimento partigiano per valorizzare l'idea della «lotta di popolo» non teneva conto dell'importanza e del ruolo degli Alleati, che non soltanto avevano garantito la stessa sopravvivenza delle formazioni partigiane attraverso finanziamenti e rifornimenti militari, ma che erano stati i veri protagonisti, proprio dal punto di vista militare, delle operazioni che avrebbero portato alla liberazione dell'Italia dal fascismo e dal nazismo. In secondo luogo, la lettura della storia italiana nella fase agonica del fascismo, della stagione resistenziale e del passaggio all'Italia repubblicana attraverso il paradigma interpretativo della «guerra di popolo» e della «unità della Resistenza a guida comunista» ha condotto a una distorsione della realtà che ha annullato le sfumature politiche dell'universo partigiano - cattolici, liberali, monarchici, militari e così via - nel grande calderone comunista e che, soprattutto, ha messo del tutto da parte il problema della contestualizzazione internazionale della Resistenza.
Una studiosa che non si riconosce in questa vulgata storiografica, Elena Aga Rossi, nel suo nuovo libro L'Italia tra le grandi potenze. Dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda (Il Mulino, pagg. XXVIII-396, euro 30) concentra l'attenzione proprio sugli aspetti internazionali negli anni '40 del '900 per capire genesi e motivazioni dell'assetto bipolare e per spiegare, anche, l'influenza sovietica in Italia in particolare durante il periodo staliniano. A differenza degli storici che avevano sostenuto che già durante il conflitto erano emersi elementi di crisi della «Grande Alleanza» fra le potenze occidentali e l'Unione Sovietica e che la conferenza di Jalta avrebbe rappresentato «il momento simbolico della divisione dell'Europa», Elena Aga Rossi sostiene che i governi angloamericani accettarono di fatto, fin dai primi anni di guerra, il «predominio sovietico in gran parte d'Europa, come prezzo da pagare per un accordo duraturo nel dopoguerra». Sotto questo profilo, la conferenza di Jalta le appare non già «un momento di contrasto fra i tre alleati», quanto «il momento del massimo accordo» sulla divisione della vecchia Europa in sfere d'influenza fra Gran Bretagna e Unione Sovietica, mentre gli Stati Uniti, pressati dal diffuso sentimento isolazionista del Paese, avrebbero assicurato la presenza di loro truppe soltanto in territorio tedesco. Si tratta di una tesi profondamente revisionista rispetto alla vulgata, ma supportata da un'attenta lettura comparata della documentazione proveniente dagli archivi occidentali e da quelli sovietici divenuti finalmente accessibili: una tesi che fa capire, tra l'altro, come e perché l'Italia sia diventata, fra il '45 e il '48, un Paese la cui vita politica risultò condizionata dagli interessi, ma anche e soprattutto dai contrasti, fra le tre grandi potenze. E, ancora, come e perché il Partito comunista italiano, al servizio di Stalin, abbia potuto acquisire un'importanza decisiva nella storia della penisola fino al punto da assumere una posizione talmente egemone dal punto di vista culturale da condizionare la storiografia.
Già durante il periodo bellico i dirigenti sovietici elaborarono, come risulta dai documenti sovietici, diversi piani per il dopoguerra che ipotizzavano una graduale «sovietizzazione» dell'Europa da realizzarsi nell'arco di qualche decennio. Osserva in proposito Elena Aga Rossi: «in Stalin e nella leadership sovietica coesistevano pragmatismo e ideologia: il pragmatismo dettava, secondo il principio della correlazione delle forze, una politica moderata finché non fosse acquisita la potenza militare necessaria per avanzare territorialmente; sull'ideologia si fondava la convinzione dell'inconciliabilità fra il sistema socialista e quello capitalistico e della vittoria finale del primo». Il mix fra pragmatismo e ideologia si vede bene nel caso dell'Italia, dove Stalin aveva la possibilità di utilizzare come braccio operativo il Partito comunista italiano guidato dal fedelissimo Palmiro Togliatti. L'esempio più significativo di pragmatismo è offerto da quella «svolta di Salerno» della quale la stessa Aga Rossi, insieme a Victor Zaslavsky, si era già occupata in lavori che hanno detto una parola definitiva sull'argomento. La «svolta di Salerno», cioè la scelta di collaborare con la monarchia e con il governo di Badoglio, fu, infatti, una decisione assunta a Mosca e poi attuata da Togliatti dopo il suo rientro in Italia nel marzo del 1944. Il leader comunista la presentò come frutto di una sua decisione autonoma, come una manifestazione di indipendenza da Mosca, ma le cose erano ben diverse. Come Elena Aga Rossi sottolinea, Togliatti operò secondo le direttive di Stalin giungendo al punto di falsificare la data della sua partenza da Mosca «in modo da far apparire di essere partito prima della decisione sovietica di riconoscere il governo Badoglio». Non è un caso, poi, che egli continuasse a mantenere legami stretti con l'Unione Sovietica attraverso l'ambasciata sovietica a Mosca.
Quando varò la «svolta di Salerno» Togliatti si adeguò al progetto di Stalin secondo cui - rimanendo ferma la linea emersa a Jalta di una divisione dell'Europa in sfere di influenza - la transizione al socialismo dei Paesi controllati dalle potenze capitalistiche dovesse seguire un percorso diverso da quello dei Paesi dell'orbita sovietica. Con la «svolta» Togliatti impedì che il Partito comunista venisse escluso dall'area di governo, ma al tempo stesso avviò la costruzione di un «partito nuovo» fautore di una «democrazia progressiva» che, senza escludere del tutto la possibilità del ricorso a soluzioni insurrezionali, avrebbe dovuto portare comunque alla conquista del potere. Il fatto che la politica del Partito comunista italiano e l'azione di Togliatti rispondessero a una precisa strategia di Mosca, e in particolare di Stalin, è un punto che emerge in maniera inequivocabile dal volume di Elena Aga Rossi. E non soltanto per quanto riguarda il periodo '44-47.
Il peso dell'Unione Sovietica sul Partito comunista italiano, largamente finanziato da Mosca, si manifestò anche negli anni successivi, tanto nel biennio '47-48, quello dell'inizio della «guerra
fredda» e della «scelta occidentale» dell'Italia, quanto nel quadriennio '49-53, durante il quale i comunisti italiani assunsero sempre, nelle questioni internazionali, posizioni di intransigente difesa dello stalinismo.
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