Tomasi di Lampedusa, il profeta che la sinistra rifiutò di ascoltare

Lo scrittore siciliano nel descrivere l'Italia del 1860 parlava della propria, e anche di quella di oggi. Svelandone i difetti

Tomasi di Lampedusa, il profeta che la sinistra rifiutò di ascoltare

Occhio alle date. Sessant'anni fa muore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, due anni dopo il suo Gattopardo, pubblicato postumo, spacca in due la società letteraria dell'epoca e vince lo Strega. Erano quelli gli anni dei fatti d'Ungheria, si registrava il primo decennio post bellico, alla lira veniva assegnato l'oscar per la moneta più stabile e di lì a poco l'Italia avrebbe festeggiato il centenario della sua unità. Dibattere su progresso e regresso, conservazione e rivoluzione, ovvero, e semplificando, essere pro o contro quel romanzo in un'ottica ideologico-politica aveva in fondo la sua ragione d'essere.

Come spesso succede da noi, l'ineffabile mondo della sinistra culturale d'allora, che del Gattopardo aveva negato e/o svilito il valore artistico sulla base che si trattasse di un romanzo di destra, nel giro di poco ne magnificherà la versione cinematografica in quanto di sinistra: la regia era di Luchino Visconti e dietro l'opera c'era l'imprimatur e la benedizione del Pci.

Di questo trasformismo intellettuale all'italiana, chi ne ha voglia può leggersi tutti i particolari nel libro esemplare di Alberto Anile e Mara Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, uscito per le edizioni Le Mani quattro anni fa e nel quale c'è anche un puntuale resoconto delle polemiche intellettuali intorno al romanzo stesso.

Sessant'anni dopo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa è considerato senza se e senza ma un grande scrittore e Il Gattopardo un monumento letterario del Novecento e bene fa Maria Antonietta Ferraloro a dedicargli questo L'opera-orologio (Pacini, pagg. 80, euro 12) analisi puntuale e documentata del suo meccanismo interno, il suo solidarismo e la sua filosofia della storia, il bestiario che lo attraversa, l'elegia memoriale e il tradimento della letteratura di genere, il cosiddetto romanzo storico compiuto dal suo autore.

Bene fa anche l'autrice a definire il romanzesco «se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi» del nipote Tancredi allo «zione» principe di Salina, «parole fra le più citate, vituperate e fraintese della nostra storia letteraria recente». Anche perché l'assunto del Gattopardo è un altro, «il tutto sarà lo stesso mentre tutto sarà cambiato», in peggio, naturalmente, che è la riflessione del principe e che è poi quanto è avvenuto in Sicilia e in Italia. Restando nel campo della letteratura, quello Strega del 1959 vide il Gattopardo vincere su La casa della vita di Mario Praz e Una vita violenta di Pier Paolo Pasolini e esclusi dalla cinquina erano stati Primavera di bellezza di Fenoglio, Il ponte della Ghisolfa di Testori, Il povero Piero di Campanile. Avete presente lo Strega d'oggi?

Sessant'anni dopo, dunque, siamo tutti consapevoli che Il Gattopardo è un classico e imprigionarlo nella gabbia delle ideologie ha poco senso. Ma sappiamo anche che quell'accusa di essere un romanzo di destra dimostra la miopia della sinistra d'allora, tanto più colpevole perché ne indica la sostanziale incomprensione di che cos'era stata e di che cos'era divenuta l'Italia, inescusabile per una classe intellettuale che si professava militante, moderna e progressista. Il letterato Tomasi di Lampedusa, che di professione «faceva il principe», come aveva dichiarato a un giovane giornalista perplesso, vedeva in realtà più lontano e con più lucidità di tutti quegli intellettuali impegnati che quella realtà si ostinavano a spiegare senza però conoscerla.

Raccontando l'Italia del 1860, Lampedusa in realtà ci metteva di fronte a quella di un secolo dopo, che ne aveva ereditato tutti i difetti senza nemmeno preoccuparsi di correggerli: fallimento nel selezionare la classe dirigente, fallimento del potere liberale nel costruire una narrazione nazionale, mancanza di prospettive di lungo termine, vittoria dell'accomodamento sulla serietà. Il suo non era il lamento di un aristocratico decaduto o di un nostalgico nei confronti del tempo andato, era l'amarezza di un italiano di fronte al fallimento di una nazione.

Sessant'anni dopo, il paragone è ancora più avvilente, una decadenza alimentatasi nel suo aver continuato a scambiare il cinismo e la furbizia per intelligenza, l'arrivismo e il trasformismo per progetto politico. L'età del boom ci sembra oggi una mitica età dell'oro e insomma si è arrivati al punto di rimpiangere la Seicento. Occhio alle date. «Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli..; e dopo sarà diverso, ma peggiore.

Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore continueranno a credersi il sale della terra». Un profeta, Tomasi di Lampedusa, oltre che un grande scrittore.

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