Ciccio è un contadino felice tra i suoi ulivi. Soprattutto quando porta a cavalluccio la bella del paese, che desidera. Ciccio è sposato, ha un figlio di sette anni e lotta come un leone contro chi sfrutta i più deboli. Eppure vorrebbe fuggire, lontano dalla sua terra amara, la Murgia degli anni Cinquanta dove i proprietari terrieri la fanno da padrone in modo iniquo. Arreso all'inquartamento, ma ancora attraente con la canottiera da bracciante, Riccardo Scamarcio stavolta è protagonista, produttore e sceneggiatore, insieme al regista Rocco Ricciardulli, del film drammatico intitolato L'ultimo paradiso (su Netfix da dopodomani), ispirato a una storia vera avvenuta in Lucania nel 1958. Un film intenso prodotto da Mediaset, Lebowski e Silver Production, con Valentina Cervi e Gaia Bermani Amaral, contrapposte a un patriarcato duro a morire. I ricci domati nel codino, seduto accanto a una «console» neoclassica, l'attore classe 1979, da poco divenuto padre d'una bimba, presenta il suo lavoro online. «Però era carino, quando c'erano le conferenze stampa in presenza: qualche battuta con i giornalisti, un bicchiere di prosecco adesso è tutto così terribile: auguriamoci che finisca presto sta cosa: non so voi, ma io mi sto annoiando», riflette.
Mentre scriveva L'ultimo paradiso quali sono state le difficoltà di stesura?
«Ho usato un metodo già sperimentato in Pericle il Nero: il work in progress, che continuava anche durante le riprese. Il finale, per esempio, è diverso da quanto programmato a dieci giorni dalla fine. Girando in Puglia, tra Bari e Gravina, ci parlavamo, vedevamo i posti, improvvisavamo... Il work in progress comporta rischi, ma dà i suoi frutti: siamo tutti più elastici, più organici, soprattutto quando non ci sono risorse enormi da sfruttare. Ci siamo rimboccati le maniche, zappato la terra».
Qui la lotta al capolarato fa da sfondo a una storia d'amore. Qual è il fulcro del film?
«In questa storia ho ritrovato due elementi fondamentali sullo sfruttamento, in primis la lotta di classe. E poi l'emancipazione. C'è chi è scappato dal luogo in cui viveva e chi vuole tornarci. Ricordiamo che c'è, ancora oggi, un'altra Italia: 60 milioni di italiani all'estero. Ce ne sono 20 milioni soltanto in Brasile. Il film mette in scena situazioni paradossali: Ciccio è sposato e ha un bambino, ma s'innamora e vuole scappare. Questi paradossi mi piacciono».
Nel paradosso trova un elemento vitale per il cinema?
«Il cinema deve creare personaggi tridimensionali, non procedere per stereotipi: il buono di qua, il cattivo di là. Certe atmosfere la nonna che insegna al bambino come fare le orecchiette, per esempio le ho vissute anch'io da piccolo. Il film, per me, non è un ritorno alla terra: io dalla terra non me ne sono mai andato, mantenendo forti legami con i luoghi dell'infanzia. A Castel del Monte, che qui si vede, andavo in cerca di funghi con mio padre».
Quale significato ha, per lei, fare il produttore?
«È un privilegio costruire un film da zero. Da produttore c'è il vantaggio di conoscere il set dall'interno. Produco da 10 anni e i frutti si vedono. Stavolta mi sono concesso il lusso d'un film da 3 milioni».
Ha interpretato il ruolo del padre ne Il ladro di giorni e ne La prima luce. Ora che ha una figlia, nota un apporto diverso alla parte?
«L'amore ancestrale per un figlio ha sfaccettature diverse. Mi piaceva il ruolo del pare nel film di Franco Zeffirelli The Champ. A me interessa l'amore ancestrale: da un po' di tempo sono papà e so che l'amore per il figlio non ti prevede, è al di là di te. Nel film c'è un rapporto padre-figlio fatto di mani, abbracci, facce che si toccano. Qualcosa che ben conosco, anche se mio padre non era affettuoso. Ma questa cosa di toccarsi supera il pudore che c'è tra padre e figlio. A me, poi, interessa solo fare film, non entrare nel campo della sociologia: quando mia figlia crescerà, capirà che il cinema è meglio della vita».
Sale cinematografiche chiuse da un anno e ora sbarca sulla piattaforma: nostalgia della vecchia formula con cui si fruivano i film?
«Il cinema non è il luogo in cui il film viene visto. Il cinema è un modo di raccontare e poi molti film starebbero meglio in tivù e viceversa.
Il cinema non morirà mai: è un'arte importante, che ha una corsia preferenziale con le persone. In questo senso, Federico Fellini è il manifesto. Mi auguro e spero che quando tutta questa storia sarà finita, le sale riapriranno e ci sarà un grandissimo ritorno».
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